Per una anti-autobiografia
Ubaldo Fadini

27.09.2023

Mi è capitata pochi giorni fa la felice occasione di parlare di uno splendido libro di Luisa Passerini, In difesa di don Giovanni. Mitobiografia di una femminista (Manifestolibri, Roma 2020), insieme a Roberta Mazzanti e Dario Squilloni, con la partecipazione dell'autrice (nella sala Ferri del Gabinetto Scientifico Letterario G. P. Vieusseux, di Firenze). Volti e voci amiche che mi hanno fatto tornare in mente una costellazione di testi e di figure, alcune conosciute, con sullo sfondo la sensibilità mossa e intellettualmente finissima di Ferruccio Masini. Certamente si tratta di un gruppo di presenze che mi rincorre da tempo e che fa capolino in tante letture/riletture, anche molto recenti. Penso a Gianfranco Draghi che ricorda, tra gli altri, Ernst Bernhard, il quale ha portato la psicoanalisi junghiana in Italia, o a Cristina Campo. Ecco, Bernhard con il suo motivo della “mitobiografia”, della ricerca del mito personale che è importante tentare di scoprire per riconoscere come la vicenda biografica non si limiti alle articolazioni dell'io ma si inserisca all'interno di un complesso di relazioni biologiche, sociali, simboliche, culturali, storiche, che la concretizza multilateralmente e così la significa sempre diversamente.

Scrive Draghi: “In Bernhard c'era il senso sacrale della dignità di ciascuno, del trovare ognuno la propria individuazione, anche in quelli che nel mondo collettivo possono sembrare sbagli. Il sogno, l'inconscio ti danno una luce, una lanterna indicativa. Questo l'ho visto anch'io con le persone con cui ho lavorato. Il nostro piccolo Io può volere tante cose, ma finiamo sempre, se non seguiamo la strada individuale, cioè quella sacra che porta al nostro cammino, finiamo nelle panie di una scontentezza e di una delusione profonde, di non essere stati quello che avremmo potuto essere” (G. Draghi, Dal rogo. Prima dettatura veloce del racconto della mia vita, a cura di Giancarla Innocenti, Gaffi, Roma 2020, p.196). E rispetto ancora alla centralità del sogno, Draghi osserva: “(...) preferivo vedere la persona nella sua realtà, nella verità personale, e così ho cercato di elaborare con loro di volta in volta come stavano veramente, come stavano con i loro allievi, o con i loro pazienti. Ho cercato, come ne discussi più volte con Bernhard (…), di mettere tutto sul positivo, perché il negativo cadesse da sé, l'ombra si trasformasse da sé (…). Sì, la stella polare resta l'interpretazione dei sogni, quella bisogna tenerla ferma, insieme all'onestà del rapporto con la persona con cui si lavora. (…) Devi cercare di pulire al massimo, di tenere aperti tutti i canali per l'energia produttiva che l'altro ha, in modo che possa utilizzarla positivamente. Facendo questo si può poi essere esigenti con le persone, anche al livello del sogno. Allora avrei detto: 'Questo dice il tuo sogno, fallo, non deviare da questo, non aver paura'. Questo, immagino” (p.320).

Al di là del mio rinvio, che scatta quasi in automatico, alle riserve deleuziane rispetto al sogno nel suo rapporto con il sonno (rimando di ordine filosofico e poi impercettibilmente biografico: si pensi, se mi è permesso, al mio Dialoghi con l'amico insonne. La perdita del peggio), alla base di tutto ciò sta la domanda qui imprescindibile di Jung: “ma allora qual è il tuo mito?”, a cui vorrei appunto agganciare il testo “mitobiografico” di Passerini nel quale il dialogo della narratrice con la figura di don Giovanni si combina con le esperienze concrete di colloquio/confronto, in luoghi diversi e in contesti amicali e convegnistici, con una pluralità inesauribile di stimoli forniti da studi, interpretazioni, rappresentazioni artistiche su quello che si presenta come un mito “plastico”, inafferrabile perché effettivamente “proteiforme”, come ricorda Roberta Mazzanti.

Passerini è una storica importante, che ha segnato con la sua ricerca la formazione, tra l'altro, di una parte della “mia” generazione oscillante tra studio e passione politica. In tale ottica, mi viene da menzionare Torino operaia e fascismo (1984), accanto a Autoritratto di gruppo (1988, 2008), per non parlare di L'Europa e l'amore (1999) e di Memoria e utopia. Il primato dell'intersoggettività (2003): non dimenticando i più recenti Women and Men in Love. European Identities in the Twentieth Century (2012) e Conversations on Visual Memory (2018); c'è sicuramente una continuità di percorso in tale elaborazione complessiva che è contraddistinta dal taglio ovviamente “scientifico” e che però spesso si intreccia proprio con temi di carattere autobiografico e “narrativo”. In questa prospettiva mi sembra emergere il coinvolgimento esistenziale dell'autrice in ambiti di esperienza di valore decisamente “aperto” e per così dire proiettivo: le pratiche discorsive del femminismo, le riflessioni sulle relazioni tra i sessi, sui passaggi dalla giovinezza alla vecchiaia, sul rapporto tra la vita terrena e l'“oltre”.

Nella conversazione fiorentina è stato sottolineato come Passerini rifletta sulla figura di don Giovanni anche intendendola sotto la veste di “suscitatrice della soggettività femminile”, in quanto soggetto di deviazione dai quadri consueti di normazione/normalizzazione, pure di carattere morale. È da tale deviazione che può risultare lo stimolo per tentare una diversa pratica di individuazione, al di là della stessa valutazione del perdersi iniziale. E la “mitobiografia” si conclude proprio con il rilievo accordato al riconoscimento di una “presenza” finalmente liberata da compiti troppo gravosi e avvertiti come veicolo di manifestazione di quella che risulta essere una sorta di ossessione, certificata da una ricerca minuziosa di ogni traccia possibile dello svolgersi della sua vicenda: “Io ho finito di scrivere di me, pur senza risolvere del tutto il mistero sulla tua figura. Ma abbastanza da trasformare l'ossessione in una presenza. Mi accompagnerai ancora, anche se non trascriverò più i nostri dialoghi. La tua storia si sposta altrove, la racconterà qualcun altro” (Luisa Passerini, In difesa di don Giovanni. Mitobiografia di una femminista, cit., p.252).

E a proposito “di qualcun altro”, In difesa di don Giovanni mi ha fatto venire in mente un breve testo di Ferruccio Masini, L'ultima lettera di Don Juan, pubblicato nel 1959, a cui lo stesso autore affiancò una Postilla critica all'estetica kierkegaardiana, prendendo ironicamente posizione nei confronti della figura del seduttore “mozartiano” su cui appunto trovò modo di insistere il filosofo danese. Non mi interessa qui seguire passo dopo passo il percorso della riflessione dello studioso fiorentino, mi piace piuttosto ricordare come L'ultima lettera di Don Juan sia da proiettare anche su un altro testo importante, vale a dire la Filosofia dell'avventura, del 1962, che consente di accostare un'idea del soggetto di avventura che ce lo restituisce come esemplificativo di un movimento che è poi quello di un iniziare sempre nuovo, di un ripetere paradossalmente differente, com'è in fondo quello proprio del seduttore per eccellenza.

Quest'ultimo si presenta – nei testi richiamati e soprattutto in quello di Passerini – come una figura del virtuale, meglio: della parzialità delle attuazioni di quei potenziali che specificano la realtà di un essere di relazione, aperto e “mutualmente costituito”, per riprendere Tim Ingold. Si ha così una raffigurazione, in breve, del soggetto che inizia incessantemente come “soggetto a”, rapportato ad altro, ad altri, in un senso che lo restituisce certamente nel suo essere “suscitatore di soggettività” ma anche nel suo porsi in profondità come capace di accendere il desiderio nell'altro di esistere – sempre come soggetto, “soggetto a” – nel e con il mondo, nell'altro e negli altri. Paradossalmente, ma non troppo..., si può arrivare ad affermare che don Giovanni stimola a gettare lo sguardo “là fuori”, nel mondo, rigettando quindi qualsiasi egolatria o eccesso di egocentrismo. Non ci sono veri e propri “sviluppi” in don Giovanni ma le sue vicende rivelano una qualità dell'esistere, un fattore esistenziale che richiama il valore della unicità, per il soggetto moderno, della sua singolarità insostituibile, perché è a esso che va accordato il motivo dell'iniziare sempre di nuovo in prima persona, con effetti di presa di posizione: che valgono addirittura, sempre paradossalmente, come indicativi del significato essenziale della presa di responsabilità; in tale ottica, questa figura appare – con un pizzico di sorpresa da parte mia – come un soggetto profondamente “responsabile” nella rivendicazione che è sempre e comunque soltanto lui – ripeto: in prima persona – a fare quello che viene realizzato come (si) sa.

La via di don Giovanni è sempre quella di “mezzo”, nella rivendicazione della propria singolare unicità delineata tra gli estremi della tentazione dell'autoconservazione “selvaggia”, dell'accoglimento senza riserve del valore salvifico della chiusura di sé, in realtà decisamente autodistruttiva, e della riduzione del mondo a semplice occasione d'incontro nello spaccio della propria identità data nel consumo sempreuguale delle relazioni. L'inizio come ripetizione incessante è in definitiva l'espressione di una volontà di sospensione, di una interruzione che concretizza l'esperienza dell'esistere e che così favorisce la presa d'atto dell'importanza dello stare insieme e del saper conversare (del saper sostenere con l'altro, gli altri, la desiderabilità di ciò si ritiene/pretende appunto di desiderare). E sul rilievo da accordare allo stare insieme/conversare è da leggere il primo dialogo immaginario tra l'autrice e don Giovanni (In difesa di don Giovanni. Mitobiografia di una femminista, pp.12-13), a proposito di una esperienza, la “memoria di don Giovanni”, che vale come un campo affettivo da esplorare senza sosta, inesauribile: “ - Si capisce che non puoi raccogliere tutto. Non ti sto suggerendo di scimmiottare Leporello facendo un inventario completo. Dare voce a tutte le storie su di me sarebbe un tentativo esagerato. Invece potresti fare un po' di storia orale centrata sul mio mito che includa anche la tua voce: riprodurre conversazioni e discorsi, tenere una specie di diario etnografico, proprio come hai fatto e insegnato a fare tante volte. Puoi mettere insieme tante voci diverse radunando una specie di consesso virtuale di cui faccia parte anche tu. Hai insistito tanto su soggettività e intersoggettività! - Consesso virtuale? - Anche la scrittura, non solo il computer, è virtuale! - E tu sei irreale. - No, io sono immaginario, è molto diverso, dovresti saperlo. - Incasso e ribatto: - Certo che alla fine della vita cercare di conciliare il mestiere e la passione, e proprio attraverso don Giovanni, sembra un'impresa destinata allo scacco. - Dipende da che punto di vista. Intanto potremmo cominciare da qui: la prossima volta voglio un vero dialogo!”. Vale a dire un dialogo immaginario, che restituisca il carattere plurale delle vicende di vita, di ciò che ben raffigura un soggetto che è da qualificarsi come “virtuale”, qualità che vale per tutti e in particolare per chi si occupa di “storie”.