07.02.2021
Passioni e politiche dell’amicizia
Stefano Berni
Nella tradizione filosofico-politica dell’Occidente la rilevanza delle emozioni non è stata mai considerata. In un primo momento, nell’Antichità, si supponeva che il governo del mondo dovesse rappresentare simbolicamente il governo degli uomini in una concezione per la quale il macrocosmo si rispecchiava nel microcosmo. Questa visione analogica e metaforica supponeva come principio una trascendenza che poneva un ordine e una verità sulle cose e sugli uomini. La politica era ridotta al solo potere di una casta sacerdotale e guerriera.
Platone raccolse questa concezione aristocratica sostituendo, ai guerrieri e ai sacerdoti, i filosofi, novelli governanti che detenevano il potere in una concezione metaforica non più in relazione all’universo e agli dei ma al corpo umano. Come la testa governava braccia e gambe, e il timoniere di una nave guidava la ciurma, ora il governo dei filosofi avrebbe dovuto governare il popolo. Si insediò nella concezione occidentale l’idea che la mente fosse di natura divina e il corpo di natura mortale. Da Platone in poi la teoria politica si basò sull’idea che pochi dovevano governare sui molti: i primi rappresentavano la mente eccelsa e superiore, l’anima razionale; i molti rappresentavano il corpo con le sue passioni, considerate di origine animale e materiale, dunque, inferiori, da controllare, governare o, ancora meglio, espungere.
La concezione ebraico-cristiana rafforzò questa teoria e mantenne intatta la visione pastorale di un potere accentratore, divino, trascendente. Anche le teorie della modernità, Hobbes, Locke, Rousseau, benché abbiano provato a partire da un riferimento al corpo e alle sue passioni, di fatto hanno concepito una politica tutta razionale, senza considerare che spesso l’agire trova la sua spinta inerziale proprio nelle passioni. Si pensi a Hobbes: il governo non è che un artificio razionale che abbandona lo stato iniziale dell’umanità ferino e pericoloso. E anche il giusnaturalismo di Locke, pur ponendo al centro il corpo, in realtà esso non è agito da passioni, ma è solo uno strumento per produrre lavoro. È attraverso esso infatti che è possibile emanciparsi e godere di una società razionale di uomini eguali. Insomma, tranne poche eccezioni, i filosofi hanno rimosso, come del resto l’intera civiltà occidentale, le passioni e la natura umana.
L’Ottocento è stato il secolo della storia, come il Novecento è il secolo che si è dedicato al linguaggio. Vedremo se il XXI secolo, destinato a diventare il tempo dell’intelligenza artificiale, vorrà concentrarsi sulla descrizione e la spiegazione degli istinti umani, della loro natura e delle loro implicazioni etiche e politiche. Ora che il corpo umano, insieme alla natura stessa, rischia di deformarsi o di sparire definitivamente sostituito dall’avvento delle nanotecnologie e della robotica, sembra che le istanze del corpo richiedano urgentemente di essere salvate, apprezzate, ascoltate.
Di qui sempre di più l’interesse della filosofia e della politica che si interrogano circa l’importanza che hanno le passioni, volontariamente o meno, nella scelta delle azioni degli attori sociali. Se le passioni cosiddette tristi o negative hanno ricevuto una qualche attenzione nel corso dei secoli, meno sono stati affrontati quei sentimenti alla cui base si potrebbero trovare delle azioni, per così dire, positive come la speranza, l’amicizia, l’amore, la simpatia. In particolare l’amicizia è stata trascurata dai filosofi moderni che la relegano a relazioni private.
Non si tratterebbe tanto di risalire a Aristotele passando da Spinoza e Hume, quanto di riuscire a comprendere, sulla base anche di studi etologici e biologici, quali passioni siano effettivamente alla base dell’amicizia e in che modo essa possa giocare un ruolo decisivo nella politica per individuare la forma che essa potrebbe assumere nel riconoscere questa filiazione materialistica e immanentistica.
Tre sono le emozioni che più di ogni altro giocano dei fattori importanti all’interno della relazione sociale e politica dell’amicizia: la compassione, la simpatia, l’affetto. Le teorie politiche che si basano sulla compassione suppongono che gli individui siano dotati di un dovere di accogliere, aiutare, difendere, sostenere coloro che sono più in difficoltà. Nella compassione si avverte un sentimento di carità, di pietà che si vorrebbe estendere a tutti gli uomini. Qualsiasi anima è benvoluta e trova legittimità in questo abbraccio solidale e fraterno. Tale sentimento viene razionalizzato sulla base di un presupposto logico per il quale quello che vale per me deve valere per tutti.
La compassione è alla base di una filosofia politica egalitaria, solidaristica, comunista. L’emozione della simpatia (o empatia) è invece possibile estenderla solo ad alcuni che ci somigliano intuitivamente. Essa seleziona delle persone in base ad un sentire comune, ad un con-sentire che risuona e che coinvolge scelte condivise.
Le teorie politiche che si basano su tale emozione presuppongono la collaborazione in base a interessi e un sentire comune. Infine l’affetto spinge ad amare solo sulla base di un presupposto egoistico. Si ama unicamente solo una persona per la quale si riconosce il sentimento di felicità che ci coinvolge e rende quel rapporto unico ed esclusivo. Ogni politica si basa dunque su un sentire prima ancora che razionale, istintivo e non saranno certo le parole che potranno convincere il lupo a diventare agnello.