Parole nomadi
Luciana Floris

30.06.2024

Un flusso inarrestabile che scorre impetuoso, quasi non conosce spazi bianchi o battute d’arresto, non si concede la tregua del silenzio: è questa la scrittura che caratterizza l’ultimo libro di Monica Sarsini, Un giorno, edito da Vita Activa Nuova, presentato di recente al Salone del Libro di Torino. La casa editrice triestina, schierata a favore di “una scelta militante ed etica delle parole”, si ispira alle parole di Hannah Arendt sulle potenzialità di un agire umano dal quale “ci si può attendere l’inatteso”, “l’improbabile”.

È inattesa la voce che attraversa queste pagine, pronta a sorprendere e trascinare chi legge: non c’è un indice che aiuti a orientarci, funga da bussola; non ci sono capitoli dai titoli rassicuranti o stacchi di pagine dove fermarsi e tirare il fiato. C’è solo il ribollire caotico di una materia magmatica e pulsante: saltano i punti fermi, le coordinate spazio-temporali. La grana delle parole è fitta, densa di significati, come quelle acque limacciose dove si agita di tutto, e mulinelli e correnti non cessano di smuovere il fondale. Non resta che entrarci dentro e lasciarsi portare, dove non lo sappiamo.

La voce narrante non oppone “resistenza” alla memoria, si lascia invadere dai ricordi. È lei, per prima, ad affidarsi alla scrittura, fiduciosa nella sua energia, a “entrare in un vortice di parole per trovare salvezza”, cercando un “riparo dal peso di esistere”. La postura di chi scrive è all’insegna della “resa”, un arrendersi davanti all’irruenza del linguaggio, ponendosi in ascolto delle voci che l’attraversano. Dotate di una loro forza autonoma, sono indipendenti dall’autrice che, lontano dal volerle controllare, cerca di “dissolversi” nel fluire del linguaggio, superando i limiti dell’io. Tutto ciò non potrebbe avvenire senza quella “devozione alla parola scritta” che, come ammette la stessa Sarsini, l’accompagna fin dall’infanzia.

Ci troviamo alle prese con “parole indomabili”, smaniose di svincolarsi, di “ribellarsi”, che non si lasciano addomesticare, “addestrare a un progetto”. Parole-scrigno debordanti di senso; parole nomadi, zingaresche che possiedono una “forza espressiva anarchica”, “sovversiva”, come scrive Roberta Mazzanti nella postfazione. Parole animate dalla stessa necessità che spinge a scrivere un “testamento”, pronunciate davanti a una soglia, un passaggio decisivo, qualcosa di inesorabile dove si gioca la stessa possibilità di sopravvivenza. Perché “la potenza del non-essere è sempre in agguato contro la volontà di essere”. Parole da chiamare in “soccorso” per superare lo “spavento”, e “cercare un rimedio nell’esattezza”. E così elaborare il lutto, “la morte di qualcuno grazie al quale era possibile sentirsi a casa sulla terra”. Ma anche affrontare un rapporto conflittuale con la madre, con le radici, e fare i conti con una casa carica di storia familiare. Parole che arrivano come una “ridda di donne”: compagne con cui stabilire un’alleanza, complici con cui trovare un “punto d’intesa”, e creare un rapporto di sorellanza.

Col ritmo ipnotico che ricorda l’incedere di Thomas Bernhard o di Georg Sebald, con la crudezza della prosa di una Agotha Kristof, queste pagine sono capaci di aprire un’altra dimensione, di creare uno spazio altro, ed entrare in quella “zona del narrare”, di cui parlava Daniele Del Giudice: un “campo di energie”, di molteplici forze vitali che emergono ai limiti del già detto e già conosciuto. Alla base c’è un pensiero “eretico” che, rifuggendo da schemi e astrazioni, “si fonda sul condensarsi delle immagini”.

Nota anche come artista visiva, Monica Sarsini sembra lavorare la pasta della scrittura come la materia delle sue sculture, la cartapesta e il fil di ferro dei suoi teatrini: con lo stesso intento di esplorare, di spingersi ai limiti del dicibile, la stessa caparbietà nel mettere in scena situazioni, eventi, personagge: figure femminili ribelli, decise a riscattare la loro sorte e rivendicare il diritto alla libertà, come Penelope che, stanca di aspettare, prepara le valigie per andarsene dalla sua isola-prigione. In effetti, se la vita diventa insostenibile, se le parole si ritraggono, “l’unica risorsa diventano le mani”. Grazie a loro, è possibile guadagnare un certo “distacco”.

L’impegno militante è un’altra cifra dell’autrice fiorentina, che da quindici anni entra nelle sezioni maschile e femminile del carcere di Sollicciano, dove tiene corsi di scrittura. Oltre a vari titoli con Giunti e Scheiwiller, ha pubblicato diverse antologie che raccolgono i racconti dei detenuti, fra cui l’ultimo La portavoce (Ed. Contrabbandiera). È proprio questa comunità ferita che può regalare una sensazione di appartenenza, grazie all’ascolto empatico di tante voci, di tante storie. “L’unico luogo dove mi sembra di stare bene è nell’aula del carcere ad ascoltare le parole dei detenuti arrivati lì da tante terre, alcuni dopo aver percorso un cammino estenuante, leggono a voce alta (…) parole che mi incantano, raccapriccio, scricciolo, pentecoste, fuggitivo, grata per la relazione che ho intessuto con loro attraverso l’artificio della scrittura per ricucire lembi di mondi mal ridotti”.