"Parco umano" e società di controllo
Tiziana Villani

12.08.2021

La recente ondata pandemica sta ingenerando un profondo mutamento dei rapporti sociali, dei comportamenti delle masse e una più radicale modificazione del sentimento del tempo, degli stili di vita, delle attese e delle prospettive.

Per quanto radicale sia questa trasformazione, in realtà ci mette di fronte a una riconfigurazione antropologica che era già in atto e che dunque, come spesso accade nei grandi momenti di svolta, ha subito un’accelerazione dettata dall’urgenza di rispondere all’ “inaspettato”, o meglio a ciò che si era presunto, ma che si è preferito non affrontare preventivamente. Sono diversi i fattori che concorrono a rendere opaco e fittizio il tempo che stiamo attraversando.

Il “parco umano” evocato da Sloterdijk è un parco addomesticato, che nel suo addomesticamento ha ampliato la sfera del suo agire sulla natura, sull’ambiente, sul lavoro etc. Questo parco ormai globalizzato, pur nelle sue diversificate forme, è stato chiamato, è chiamato, a rispondere al “limite” insito nel suo stesso modo di concepire l’andamento demografico, quello migratorio, la produzione, il consumo. Mai gli esodi, gli spostamenti, le migrazioni si sono sviluppati in modo così veloce favorendo nuove forme di sfruttamento e di ostilità.

Di questi molti temi qui, nell’oggi, in questa situazione per molti versi inafferrabile, mi preme però affrontare un aspetto specifico: la crisi dei saperi e la destituzione di senso di buona parte di quel pensiero critico, che fino alla metà del secolo scorso era riuscito a connettersi con le trasformazioni sociali, continuando a interrogare i processi che andavano costituendo le masse di una modernità che era stata lacerata da due guerre mondiali e che abbracciava il modello della produzione-consumo come nuova configurazione della vita. Fino agli anni Settanta quest’andamento è stato analizzato, contestato, avversato da movimenti, intelligenze ed espressioni artistiche che non hanno mai cessato di segnalarne il divenire del suo tratto dispotico.

Dagli anni Ottanta molto è cambiato, la rivoluzione cibernetica il superamento del modello fordista il compiersi di una società spettacolarizzata e inconsistente veniva segnato però anche da un grande shock pandemico l’epidemia dell’AIDS. La sessualità subisce un processo di classificazione su base apparentemente sanitaria, in realtà permette unitamente all’individuazione di tutta una serie di comportamenti ritenuti devianti tra cui l’uso di droghe, etc. di stabilire una nuova classificazione del parco umano nel tempo euforico della finanza planetaria e dei profitti facili, la malattia produce nuovi “scarti umani”, la ricerca tarda, le multinazionali del farmaco tentennano e soprattutto brevettano.

La selezione umana di quegli anni venne narrata perché colpì intellettuali, artisti, personaggi molto noti che decidevano di raccontare il proprio calvario, ma in modo più massiccio l’AIDS decimò le popolazioni povere, i diseredati, i senza cura del mondo “neo-coloniale”, i cui governi complici delle nuove gerarchie di poteri nulla facevano per arginare questa piaga.

È a partire da quell’epidemia che i saperi, scientifici, filosofici, artistici etc. hanno iniziato a ritrarsi nella marginalità, nell’inessenzialità della propria funzione. Il paradigma igienista, da più parti studiato anche con profonda attenzione, non ha saputo cogliere il livello di sperimentazione dei sistemi di controllo e di condizionamento della vita che si andava operando su scala così ampia. I tuttologi hanno sostituito i filosofi, la ripetizione e il copia incolla la ricerca creativa, la ripetizione senza citazione si è imposta in luogo della narrazione avvertita, tutto racconta di una resa, di un effimero apparire e segnare le proprie deboli e molto transitorie presenze. Ma le masse nella loro atomizzazione sperimentano ora un nuovo trauma; mute disperse alla ricerca disperata di un “come prima”, di riti, rassicurazioni, occupazioni che appaiono invece trasformate.

I meccanismi della produzione, della logistica, della delocalizzazione, dello sfruttamento diffuso, del telelavoro non sono che una parte di un rivolgimento in larga maniera già annunciato e che indica nuove selezioni, discriminazioni in atto. Non c’è più un soggetto capace di coagulare interessi di vasta portata sociale, la frammentazione delle vite è funzionale alle nuove modalità di un comando che in larga parte si da come anarchico e avulso dal contesto sociale delle masse. Il meccanismo in sé non è del tutto nuovo, ciò che è nuovo è la velocità attraverso la quale si sta producendo.

L’incidente, come avrebbe indicato Paul Virilio, è la processualità attraverso la quale si manifesta la tarda modernità, e al di là della comunicazione spettacolarizzata, “gli incidenti” continuano ad accadere.

Incidenti nucleari, AIDS, mucca pazza, Sars, Ebola, Covid sono solo una piccola parte dei processi di desertificazione, cambiamento climatico, nel mentre si continua ad estrarre risorse di ogni sorta in favore di un sistema economico compiutamente folle, ma che trova il suo consenso nei miraggi del consumo, della soddisfazione di bisogni “secondari”, che inevitabilmente non potranno che riguardare quote sempre più ristrette di popolazione.

Le masse oggi non costituiscono più una società di massa, la massa è un problema che occorre governare in un’epoca che opera attraverso la selezione, l’esclusione e l’immiserimento.

Ma l’uomo del terzo millennio si attarda nei suoi riti, invoca il mito dell’opulenza e non vuole guardare la sua condizione di “rotella dell’ingranaggio”, un ingranaggio che raramente necessita di parti insostituibili.

Il governo della pandemia in corso sembra aver messo in atto strategie diverse nei vari paesi che tuttavia, nella sostanza, hanno più che altro segnato la diversità di disponibilità di farmaci e vaccini tra paesi poveri e paesi ricchi. Ma una “filosofia” si è annunciata fin dall’inizio, andava messa in conto un’elevata percentuale di decessi e il diritto alla cura per gestione delle grandi multinazionali del farmaco, diveniva pertanto uno strumento di selezione.

Posta la necessità indubbia di una campagna vaccinale di massa e che di massa non riesce ad essere soprattutto nei paesi più poveri, resta tutta da comprendere la modificazione dei comportamenti, delle forme di relazione sociale che si stanno producendo in rapporto alle ondate pandemiche. Le masse disarticolate del nostro tempo per essere governate nella loro complessità, certo devono riferirsi ancora alle istituzioni di disciplina così ben analizzate da Michel Foucault, ma devono essere oggetto anche di più affinati sistemi di controllo il cui medium più potente, come indicava Deleuze, è la comunicazione.

La comunicazione prescinde nell’oggi dai soli sistemi dello spettacolo, già ben individuati da Debord e si riversa in ogni frammento di un quotidiano assediato da forme dirette e indirette di dispositivi d’ordine. Più che la persuasione, funziona il discrimine binario del dentro o fuori, potere o non potere, pensare o non pensare.

Eppure una simile macchina proprio in ragione del suo estremo dispiegamento si rivela vulnerabile in più punti. I meccanismi di addomesticamento delle società del consumo e della comunicazione sono spesso superficiali e se di certo riescono a produrre consenso, questo stesso resta labile e ondivago, simile al sistema delle mode.

Per questo motivo le società di controllo quando non riescono a restare strettamente dissuasive ricorrono ai modelli punitivi che non si limitano più ad esercitare l’esclusione, ma applicano un nuovo modello di regole e pene, che hanno lo scopo di normare un corpo sociale troppo atomizzato.

È possibile leggere in questo meccanismo il prodursi di nuovi schemi di gestione del potere che trovano nelle odierne tecnologie di massa uno strumentario capace di incidere in ogni piano dell’esistenza. In tal modo al divenire tecnico dell’ambiente umano continua a corrispondere un modello di “guerra”, che trasforma non solo i suoi mezzi, ma anche le forme di azione. Le masse digitalizzate sono in buona parte esecutori passivi di schemi predisposti; si è visto, a partire dalla prima ondata pandemica il crollo delle forme di concentrazione e apprendimento non solo tra gli studenti, ma anche nelle strutture amministrative e gestionarie volte ad assicurare residue reti di operatività.

Sarebbe lungo in questa sede considerare la condizione depressiva dovuta all’innesto dei corpi nelle macchine, sarà però un ragionamento da sviluppare poiché viviamo una condizione borderline, che mostra falle sempre più vistose in quelle che si vorrebbero le nuove governamentalità del “parco umano”.

Le nostre libertà sono in questione, non solo per via delle tracciabilità, dei sistemi di riconoscimento e identificazione, quanto in rapporto a sistemi sociali, in cui la subalternità ai nuovi sistemi di controllo incontra nell’ “incidente” permanente la giustificazione più propria alla messa in atto di uno stato di allerta continuo, che rappresenta il volto della guerra odierna combattuta sul piano delle vite e dell’ambiente sempre più violentemente artificializzati in direzione dello sfruttamento.

Riconquistare forme di sapere, tornare all’esercizio critico dell’analisi risponde all’esigenza di fuoriuscire da questo orizzonte passivizzante e depressivo, e permette di ricollocare al centro del nostro interessa il tema della libertà, che nel presente appare come il piano più compromesso non solo dell’agire, ma anche del pensiero, tenendo presente che la libertà appartiene al piano del sociale e del collettivo e non è declinabile in termini puramente individuali.

La regolamentazione dei comportamenti si impone in un tempo sospeso che non si sa quanto potrà durare. L’incertezza diventa una condizione permanente rispetto alla quale si è chiamati di volta in volta a modificare comportamenti, condizioni di vita, di lavoro etc.. Manca la capacità di conoscere, sapere e affrontare in modo soddisfacente una condizione che, al di là di ogni rimozione, resta traumatica.

In questo senso torna importante il rimando a Foucault quando nel 1977 rifletteva sul modo in cui il potere si esercita sui corpi: “i rapporti di potere passano materialmente attraverso lo spessore dei corpi, senza dover essere rimpiazzati dalle rappresentazioni dei soggetti. Se il potere raggiunge il corpo, non è perché è stato interiorizzato nella coscienza delle persone”.

L’insistere sulla materialità di questa relazione permette di cogliere l’ambivalenza delle nuove forme normative e la difficoltà, che da molte parti si coglie nel cercare di costruire un discorso sulle complesse relazioni dei poteri che si vanno costituendo nel nostro presente. Questi rapporti non sono dati, costituiscono un divenire che bisogna attrezzarsi a saper attraversare.