Oblio e linguaggio in Maurice Blanchot
Manlio Iofrida
19.10.2022
Il testo che segue è la Prefazione di Manlio Iofrida al volume La scrittura del silenzio  di Carlo Facente, edito da Mucchi


Prefazione


Ancora un libro su Blanchot? si domanderà il lettore: su un autore così oscuro, dalla scrittura così ripetiti- va, ripiegato su un narcisismo che costituisce un vero e proprio presupposto categoriale della sua posizione filosofica? Oggi che ce ne facciamo, oggi che siamo afflitti da una serie di disastri a ripetizione, che sono molto concreti e che ci fanno apparire così inutili i lambiccamenti della sua prosa?

Verrebbe da rispondere a queste obiezioni, tanto sensate quanto superficiali: oggi, soprattutto oggi è il tempo di Maurice Blanchot, poiché egli fu testimone e portavo- ce di un’epoca di ferro, gli anni Trenta del ’900, anni di crisi radicale, rispetto alla quale la nostra è, per ora, assai più circoscritta, ma ha dei punti di affinità notevole. Ma sarebbe cavarsela con una risposta troppo facile. Infatti, nel 2022, ma in realtà ormai da almeno due decenni, non solo la voce di Blanchot, ma anche quella della costella- zione di autori di cui fece parte e quella di cui fu padre – i surrealisti e Bataille e Artaud per lato, la generazione dei Foucault e Derrida, i cosiddetti poststrutturalisti dall’altro – appare appannata e distante.

I motivi di questo fatto sono troppo complessi per essere dipanati adeguata- mente qui, ma alcuni cenni posso essere dati. Innanzitutto, brutalmente verrebbe da dire: il fatto è che è caduto il Muro di Berlino! È l’89 il grande discrimine che ci divide dalle correnti filosofiche di cui stiamo parlando. Formatisi negli anni Trenta, Blanchot e Bataille hanno dettato, subito dopo la seconda guerra mondiale, le linee fondamenta- li di una posizione filosofica e culturale alternativa all’ esistenzialismo di Sartre e diversa, anche se meno incompatibile, da quella di Merleau-Ponty. Essa partiva da una diagnosi geniale della situazione storica successiva a Yalta e, poi, alla guerra fredda e alla coesistenza pacifica. Basta, in proposito, rileggersi il capitolo finale de La parte maledetta di Bataille (tr. it. Bollati Boringhieri, Milano, 2015), che rappresenta un’ esemplare e lucida analisi storica e geopolitica: la situazione bipolare determinatasi dopo la fine della guerra significava l’apertura di un’ era nuova, che avrebbe portato al massimo sviluppo delle forze produttive; URSS e USA erano due potenze del lavoro e dell’utile per Bataille, che non aveva dubbi sul carattere autoritario e totalitario della prima; sulla base del pieno sviluppo delle forze produttive, che rendevano ormai obsoleto il lavoro, erano piuttosto gli Stati Uniti (verso i quali era palese una netta opzione di campo) a poter ridare qualche speranza alla rivoluzione, che per l’autore si identificava col dionisiaco e la dépense.

Ma questo era vero solo perché esisteva il nemico sovietico, che incarnava un’altra possibilità di società e con cui bisognava misurarsi in una gara e in un confronto: il totalitarismo di oltre cortina era paradossalmente condizione di possibilità di una maggiore libertà al di qua della cortina. Lo dimostrava, per Bataille, il piano Marshall, in cui egli vedeva il segno dell’ormai avvenuto distacco del capitalismo dal perseguimento di scopi puramente razionali, dalla prevalenza unilaterale del momento dell’utile: il keynesismo, con grande acutezza, era dunque considerato, se non proprio la realizzazione, almeno la possibilità del salto verso lo spreco e la dépense. Ma a permettere questo salto diretto alla fase del comunismo ormai realizzato, sarebbe stata non l’azione politica, ma l’apertura di una dimensione interiore, pura e mistica, che annulla ogni scopo e ogni oggetto esteriore e al cui conseguimento poteva giovare solo un certo lavoro a livello culturale e letterario.

Anche la successiva generazione poststrutturalista, a cui questa analisi indicò la rotta in campo politico, visse e operò all’ombra della guerra fredda, del Muro e della coesistenza pacifica; e lo heideggerismo francese, di cui Blanchot fu un esponente importante, insieme a Beaufret, e che costituì la filosofia fondamentale di quella generazione, va letto con riferimento a questo quadro storico. Quando, dieci anni prima della caduta del Muro, nel 1979, Lyotard lancia con grande tempestività il postmoderno, i poststrutturalisti (Deleuze a parte, poiché è personaggio in realtà a sé), pur non condividendo quella visione, le rimangono subalterni. La verità era che col crollo del comunismo la sinistra occidentale, specie quella radicale, aveva perso un punto di appoggio fondamentale: come aveva lucidamente visto Bataille, noi potremo fare il comunismo qui, in Occidente, anche perché di là c’è l’Urss: e il capitalismo è costretto a darsi dei limiti, a essere keynesiano e pianificatore. È questo che incoraggiava Blanchot, Bataille, e poi Derrida e Foucault a condurre una battaglia di critica radicale e di liberazione radicale: i due sistemi si assomigliavano nei principi fondamentali, erano due razionalizzazioni e tecnicizzazioni del mondo totalitarie; ma quello occidentale, che dava più spazio di libertà, poteva, grazie alla dialettica col blocco sovietico, dirigersi verso una società veramente libera: il comunismo libertario e esistenziale che Blanchot proponeva fin dalla fine della seconda guerra mondiale rientrava perfettamente in questo quadro.

Dunque, quando il muro crollò e si aprì il periodo della fine della storia e della potenza unica americana, questa prospettiva vide scalzato il suo presupposto storico-politico. E Blanchot stesso, che ebbe una vita così lunga da vederne il disfacimento negli anni ottanta e anche la sua fine nell’89, cercò certo di reagire, e tutto il grande dibattito che egli aprì sulla comunità e l’amicizia, e anche il suo progressivo avvicinarsi a Lévinas su alcuni temi fondamentali, deve essere letto così; tuttavia, gli aggiustamenti che egli, come anche Derrida e Foucault, fecero delle loro concezioni non potevano essere sufficienti: troppo profonda era la diversità della situazione storica, in un mondo in cui la classe operaia, che essi avevano visto ancora florida e «fordista», sfumava i suoi contorni, cedeva all’impatto della delocalizzazione promossa dalla globalizzazione finanziaria e supportata dall’ informatizzazione, diventava addirittura serbatoio elettorale dei partiti di destra; mentre intanto il capitalismo si estendeva alla Russia e all’Europa centrale e anche quella Cina che era stato il punto di riferimento della contestazione radicale in Occidente, abbandonato il maoismo, dava luogo a un potente sviluppo industriale che avrebbe costituito un serbatoio di avanzata per l’intero sistema capitalistico.

Dunque, le obiezioni iniziali hanno ragione? Di questo grande periodo della riflessione francese, che è un vertice della cultura europea, non ce ne facciamo più niente? Sarebbe così se avessero avuto ragione Fukuyama, Lyotard, e, da noi, Vattimo e Cacciari (due nemici apparenti, che sono entrambi profondamente intrisi di ideo- logia postmoderna), se avesse vinto la prospettiva nichilista, se la storia fosse veramente finita, se si fosse andati verso la gioiosa società della trasparenza – ultimo avatar della società dei consumi capitalistica – che quegli autori auspicavano. A partire dal 2001, fino ad arrivare alla crisi di oggi, la prospettiva postmoderna è andata completamente in frantumi (tanto che oggi lo stesso termine sta diventando un relitto); è la storia che si è ripresentata con forza – innanzitutto col fatto della storicità e provvisorietà del regime capitalistico che sono resi evidenti dalla crisi ambientale: quest’ultima mette allo scoperto l’insostenibilità della società dei consumi e la necessità di inventare un nuovo modo di produzione (dico «inventare» perché non c’è nulla di dato e garantito: se questa invenzione non ci sarà, avremo la catastrofe).

Il ritorno della storia si presenta dunque innanzitutto come ritorno della natura, della sua irriducibilità; in secondo luogo, però, anche nel suo senso più proprio, che implica che la tradizione che ci sta alle spalle non è un nulla, noi non ne siano separati da uno dei tanti post con cui ci si è baloccati ripetutamente nel ’900. La storia, come ci ha insegnato Vico, si struttura per ricorsi (simili, non identici); oggi, come dicevo all’inizio, il ripresentarsi della guerra e di una lotta fra molteplici potenze riporta in vigore alcuni aspetti della situazione degli anni Trenta del Novecento; ma il pericolo atomi- co e l’oscillazione fra possibilità di pace e disastro atomico sembra invece ripetere momenti degli anni Cinquanta e Sessanta; se non esiste più un blocco comunista, il neoliberismo è comunque in crisi radicale, ovunque, anche se contraddittoriamente, si risente la voce del keynesismo, e l’occidente è confrontato a una sfida complessa e variegata con molti paesi non occidentali, a partire dalla Cina, in cui vige ancora un regime comunista.

Nel gioco di identità e differenza, di ripetizioni e variazioni che si ravvisano fra il nostro presente e alcuni momenti cruciali del nostro passato (anni Trenta, alla Cinquanta, anni Sessanta-Settanta), cosa è vivo e cosa è morto nel lascito della filosofia francese del ’900? È basandosi su questa comparazione attiva col passato che tale lascito può e deve essere rivitalizzato – il che è come dire: Blanchot, Bataille, Derrida, Foucault hanno assunto per noi ormai (come del resto, da molto più tempo, Marx) lo statuto dei classici: classico è un testo che fa parte del corpus della tradizione e che le generazioni successive hanno il compito non di ripetere scolasticamente, ma di rinnovare.

Nel suo libro Carlo Facente assolve proprio a questo compito: con chiarezza e rigore esemplari egli torna su alcuni dei temi fondamentali dell’opera di Blanchot che sono ancora oggi imprescindibili. Tutti sono organizzati intorno al tema fondamentale del silenzio: già questa scelta dimostra un’intuizione sicura da parte dell’autore, che lascia sullo sfondo tutta la tematica dell’indecidibilità che fece la fortuna di Blanchot negli anni Cinquanta, e sposta l’attenzione su un tema che oggi è di forte attualità.

Innanzitutto, ricorderò come sul silenzio la strada di Blanchot si incroci con quella di Merleau-Ponty, con documentata influenza reciproca fra i due autori (che molto si lessero e si apprezzarono lungo tutto il loro percorso). Tale collegamento, su cui Facente si diffonde in pagine importanti, è teoreticamente di grande valore: il Blanchot del silenzio non è quello che, sulla scia dell’avanguardia novecentesca, plaude alla distruzione del mondo da parte della tecnica e si entusiasma per Gagarin, ma è invece il filosofo che è sensibile al grande tema della passività: a una visione antiprometeica della libertà che Merleau-Ponty aveva già schizzato nel capitolo finale della sua Fenomenologia della percezione. Inutile dire come, nell’epoca della crisi ecologica, sia importante un tema di questo genere; si può aggiungere che, per questa via, Blanchot può essere riletto anche alla luce di quel nuovo incontro col pensiero orientale che Merleau-Ponty già aveva intravisto e che oggi si sta realizzando con il collegamento fra fenomenologia e correnti del pensiero giapponese e cinese.

In quattro densi capitoli, Facente prende in considerazione vari aspetti di questa tematica del silenzio: nel primo, tratta del modo con cui esso porta a riconsiderare il linguaggio; nel secondo del suo sboccare nella questione del neutro; nel terzo, del suo legame con la «scrittura bianca» de Lo straniero di Camus; nel quarto, infine, del suo configurarsi come parola in arcipelago, riferendosi specialmente alla lettura che Blanchot fece di Rimbaud, di Rilke e di Mallarmé. Attraverso queste analisi, tutte condotte con lucidità, rigore e piena padronanza della documentazione, il lavoro di Facente contribuisce in modo importante a quel rinnovamento creativo del pensiero di Blanchot che è oggi un compito urgente del lavoro filosofico.



©Carlo Facente, La scrittura del silenzio, Mucchi Editore 2022