Non c'è scuola senza inclusione
Daniela Floriduz

15.10.2021

Ricavo il titolo di queste riflessioni da un convegno on line organizzato il 29 maggio con alcuni amici, destinato a docenti di sostegno e curricolari. L’inclusione sicuramente non si improvvisa, come sanno molto bene gli operatori del settore e le famiglie che, fin dal primo contatto con la disabilità, avvertono impellente la necessità di documentarsi e di formarsi. Anche il Miur pare abbia finalmente recepito questa necessità, istituendo le scuole polo per la formazione con la legge 178/2020.

Ma formarsi e documentarsi attraverso quali strumenti? In 45 anni di storia la pedagogia speciale ha prodotto un mare magnum di bibliografia, di sottodiscipline settoriali, di pratiche di intervento per le quali non basterebbe un’intera biblioteca.

Il nostro alunno/studente, però, è un essere singolare, un Dasein, che non si lascia schedare in alcuno dei protocolli psicodiagnostici previsti per classificarne la disabilità, perché il nostro alunno/studente è molto di più della sua disabilità ed ha tutto il diritto di scoprirlo in quello spazio di tempo, uno dei pochi nella vita, che i Greci chiamavano σχολῃ e i Latini Otium.

Sono illuminanti le riflessioni di Martha Nussbaum nel testo «Le Nuove frontiere della giustizia» (Bologna, Il Mulino, 2007), che distinguendo tra disabilità e capacità, fonda un approccio non contrattualistico della cura, scevro soprattutto da qualsiasi forma di assistenzialismo e iperprotezione.

Il contesto può accentuare o diminuire la disabilità: ce lo ricordano, a più riprese, il movimento di cooperazione educativa, la classificazione internazionale di funzionamento (ICf), la convenzione Onu sui diritti delle persone disabili. Del resto, questo vale per tutti, solo che nel caso della disabilità è semplicemente più evidente. Già: ma la nostra scuola è davvero lo spazio dell’otium? Penso sia cruciale chiederselo, fin dalla primaria.

Personalmente credo di no. Perdonatemi se sarò brutale, ma penso che noi oggi stiamo riducendo la scuola ad una fucina preparatoria al mondo del lavoro (che non c’è), funzionale ad un sistema competitivo, arrivista, basato su modelli performativi di comportamento, dove vincono i migliori, dove hanno la meglio quelle che saranno le pedine funzionali al sistema capitalistico. Un sistema che per moltissimi aspetti sta dimostrando la sua insostenibilità, a cominciare dai disastri ambientali di cui la pandemia è il detonatore principale.

La disabilità potrebbe rappresentare un’opportunità per fare scuola in modo diverso, senza l’ossessione della rincorsa agli obiettivi, ai voti, alle competenze, alla performance. In molti casi invece le classi risultano non luoghi di inclusione, piuttosto luoghi dove la segregazione è ancora più evidente rispetto alle antiche istituzioni speciali perché si perpetua nell’ambito delle pareti della stessa aula scolastica o dello stesso istituto scolastico.

L’insegnante di sostegno lavora secondo un piano educativo individualizzato, rinnovato da un recente decreto interministeriale (182/2020, poi annullato da una recente sentenza del Tar del Lazio): la solita burocrazia kafkiana che paralizza la vita concreta e si chiude in un circolo vizioso. Il resto della classe procede secondo i suoi “programmi” standardizzati, rigorosamente caricati su google drive.

Rari, se non assenti, i momenti di intersezione tra i due mondi perché gli “abili” sono perfetti, intoccabili, supereroi, rincorrono modelli vincenti, saranno destinati a primeggiare e voltano la testa dall’altra parte di fronte alla menomazione, è un fatto che non li riguarda. Non credo che questo fosse il modello di scuola che hanno sognato gli estensori della legge 517/77 che ha comportato la chiusura delle scuole speciali.

L’inclusione richiede sicuramente reciprocità e riconoscimento per essere tale, quel riconoscimento teorizzato di recente da Axel Honneth (Feltrinelli, 2019): solo nel rapporto intersoggettivo è possibile comprendere qualcosa di sé, non solo in adolescenza, ma un po’ in tutte le fasi della vita perché lindividuo non è soltanto un essere razionale, ma anche relazionale.

Le conquiste tecnologiche, specie nel settore informatico, non hanno permesso un salto di qualità all’inclusione, semmai hanno facilitato, per alcuni aspetti, il passaggio delle informazioni, quando esso non è stato bloccato dall’ottusità dei web manager che, in nome degli effetti grafici, quindi di istanze di tipo meramente estetico, hanno violato le normative di accessibilità dei siti alle sintesi vocali o alle lenti di ingrandimento per ipovedenti.

Ma anche sotto questo profilo, il fattore umano è e sarà sempre insostituibile. La tecnologia, poi, difficilmente favorisce la socializzazione, più spesso la distorce, non di certo crea quella reciprocità di cui parla Honneth, quantomeno il contatto tra i “due mondi” non si riduce e rimane la separatezza.

Tutto questo è molto pericoloso perché taluni vorrebbero riaprire le scuole speciali, in nome di parametri di cura migliori, con il rischio di una grave regressione della società. Sarebbe come abolire la legge Basaglia.

Non è per questo che hanno lottato i nostri genitori, che non volevano mandarci a studiare a 6 anni a 200 km da casa e, pur consapevoli che non c’erano docenti preparati, strumenti adeguati, strutture attrezzate, ma che era appena uscita una legge che lo permetteva, ci hanno sguinzagliati nella scuola di tutti, perché la nostra diversità potesse fare la differenza.

Molti di noi, già in prima media, hanno rifiutato l’insegnante di sostegno, non perché avessimo particolari doti intellettive, ma perché volevamo chiacchierare con la compagna di banco per sapere se il nuovo arrivato della classe parallela fosse carino o meno, volevamo partecipare ad uno sciopero e fumare la prima sigaretta della nostra vita all’uscita della scuola, con qualcuno che ci insegnasse a farlo, anche se fumare nuoce gravemente alla salute oppure andare in bagno a provare a truccarci anche se non potevamo guardarci allo specchio…

Volevamo scoprire noi stessi senza tutele e con tutto il peso leggero della responsabilità, per la quale non eravamo certificati, ma abili (respondeo-habilis).

Non volevamo esoneri in nessuna disciplina e quindi desideravamo studiare storia dell’arte anche senza vedere i quadri, saltare dall’ultimo piolo del quadro svedese nell’ora di educazione fisica, insomma, sfidare il sistema scolastico con la nostra sola presenza. Infatti molte scuole ci hanno rifiutato e hanno perso tutte le cause legali portate avanti dalle associazioni e dai genitori.

Abbiamo incassato tutta la scala dei voti, dal 4 al 10, crescendo e conquistando le nostre autonomie nella scuola pubblica. Abbiamo insegnato ai nostri compagni la lettura ad alta voce, le audiodescrizioni, le tecniche di accompagnamento, il disegno a rilievo, l’esperienza di camminare bendati… sicuramente se lo ricordano ancora.

Questa per noi adolescenti degli anni ’80 è stata l’inclusione, non rischiamo di bruciare tale patrimonio in nome dei progettifici, delle norme sulla sicurezza, del familismo, dell’iperprotezione.