28.12.2021
Ragionando collettivamente, un po' di anni fa, sul motivo del “mostro” (in Ubaldo Fadini, Antonio Negri, Charles T. Wolfe, a cura di, Desiderio del mostro. Dal circo al laboratorio, alla politica, Manifestolibri 2001), alcuni suoi caratteri, tra i tanti, emersero con particolare evidenza e vorrei qui di seguito segnalarli.
Quello iniziale è dato dalla constatazione che al momento della dichiarazione interessata – dalla parte dei potenti – che la vicenda storica si è conclusa e che tutto ciò che vive, pure naturalmente, deve portare a lasciar credere ad un modo complessivo di fare esperienza definito una volta per tutte (“sicché felice può essere solo l'uomo che, adeguandosi alla misura, obbedisce e crede”), a volte si manifesta il mostro, l'“innominabile” (se mi è consentito...), colui/colei (“cosa”?...) che mette in discussione la normalità, l'obbedire, il credere istituito in un qualche modo.
Nel testo sopra citato, in quel ragionare interessato e complice sullo sfondo della rilevazione del persistere della “dismisura”, ci sono delle pagine di Elfriede Jelinek sul “cavaliere del luogo pericoloso...”, che ci portano all'interno di spazi inquietanti che richiedono di scrollarsi di dosso qualsiasi dogmatismo e di immaginare esistenze diverse da quelle che si pretende infine di de/terminare univocamente.
Dal contributo della scrittrice austriaca estraggo un passaggio, anche forzandolo nel senso di richiamare con esso un movimento ulteriore nella riflessione generale sul mostro, a partire da una sorta di sua possibile odierna identificazione, sia pure parziale (come sempre a proposito delle identificazioni...), con la tecnica:
“L'organico della tecnica (un mostro creato per mezzo della tecnica) e la meccanica degli uomini (operai robot), questa contraddizione è sempre là. E significa che gli uomini non sono all'altezza dei loro spazi. Dunque devono subito liberarsi con le costruzioni tanto organiche che tecniche ('Come creare spazio all'est', questa è già stata la terribile conseguenza, il vivente fu allontanato in modo che un altro vivente, che viveva apparentemente in maniera diversa, ed essendo beninteso di un rango superiore, vi si potesse installare). L'evacuazione dei luoghi non significa tuttavia che non potrebbero essercene altri dietro, di più pericolosi, con i quali possiamo essere minacciati e che, poiché non possono più essere evacuati, perché non possono entrarvi, alla fin fine non si può più nominare, e neppure mostrare” (p.174).
Dietro a tutti questi spazi ci sono altri spazi, “che ci lasciano guardare” e il loro delinearsi appartiene alla serie cinematografica di “Alien”, oggetto dell'analisi di Jelinek, ma ciò che mi interessa è la complicazione della vita, del vivente, nel momento in cui ha a che fare con quello che si può cogliere come il laboratorio infaticabile proprio della dismisura tecnica, di ciò che attiva differenza, alter/azione, aprendo così anche a una diversa raffigurazione dei mostri: meglio, ad una maggiore comprensione del loro risultare s/figurati, de-figurati.
È così che si può arrivare a riflettere – dopo il venir meno della teleologia naturale e l'indebolirsi di qualsiasi necessità di ordine meta-fisico – sul fatto che i mostri risultano realizzati dagli esseri umani. Al tema della distruzione di carattere ontologico, di un determinato ordine di/dell'essere, si aggancia allora una progressione tecnologica che non può che fare riferimento ad una socio-antropologia che metta a critica radicale qualsiasi affermazione di differenza rigida tra mondo naturale e mondo artificiale.
E' da tutto questo che si perviene ad una idea del mostro come oggetto/soggetto di produzione, che non ri-presenta in fondo la natura, anche poi ritornandovi in un qualche modo, ponendosi anzi come una specie sostitutiva, nel suo soppiantare sempre diversamente, anche quando appare, la natura, appunto ri-muovendola o facendola propria, appropriandosene senza residui.
Quello che allora conta, come si sosteneva nel libro del 2001, è l'affermazione di un'idea di mostro non ridotto a semplice “curiosità naturale” ma colto come espressione dell'attività di lavoro, in forme tecno-scientificamente assai sofisticate, sospinta continuamente verso territori di confine, abitati dalle innumerevoli metamorfosi dell'ibrido/mostruoso.
Insomma, il mostro non è soltanto un prodotto, anche sotto forma di “scherzo” (per noi...), della natura ma appare come espressione parziale, temporanea, revocabile, definitivamente contingente, in effetti – si può dire – “seconda natura” non pre-ordinabile.
Felicità e libertà fanno così capolino nel suo manifestarsi, nel senso proprio di un desiderare alla fine “biopolitico”, di impronta etica e, se si vuole, rivoluzionaria (perché no?... si capisce allora il Desiderio del mostro...).
Ma ancora va aggiunto qualcosa, che ha a che vedere con la percezione che oggi si ha del mostro, che si dispiega nel senso della rilevazione della sua ambiguità, di ciò che vale pure come contraddizione e che può sfociare poi materialmente, da ogni punto di vista, come dinamica di crisi, di urgenza politica nell'individuazione di ciò che accade alla dismisura tecnica che si combina con il vivente, con la sua determinazione come forza-lavoro di segno soprattutto cognitivo.
In questa prospettiva faccio ancora una volta mie le annotazioni di Christian Marazzi sul cosiddetto “capitalismo digitale” (oggi si parlerebbe anche, tra l'altro, di “capitalismo delle piattaforme”) e sulla centralità dell’anthropos nei suoi sviluppi, che presentano la tendenza fondamentale della “smaterializzazione” crescente del capitale “fisso”, nel momento in cui emergono come essenziali le tecnologie più “precise”, “molecolari”, “sottili” (come quelle dell’informazione e della comunicazione, ad esempio), alla quale corrisponde una sempre più rilevante affermazione della particolare dimensione tecno-bio-antropologica della forza-lavoro.
Sono convinto oggi che il “vivente” da considerarsi anche parzialmente appunto come “capitale fisso” sia ormai sempre più la nostra “normalità di base”, e che si debba tentare di apprezzare convenientemente il suo articolarsi pure come singolare “soggettività” eccedente la logica data della “sua” valorizzazione (il suo positivo divenire-mostro o mostruoso divenire) e di analizzare criticamente le dinamiche della sua determinazione/fissazione (in forma di “mostro” comune, per così dire…) all’interno della sfera della valorizzazione economica, che deprimono l’espressione della sua trama sociale e dello stesso differenziale soggettivo.
In tale direzione mi sembra opportuno riproporre sia la pratica critica della cartografia concettuale sia la ricerca delle figurazioni espressive del vivente umano “non unitario”, strettamente legate tra loro e rivolte a individuare quelle progressioni tecnologiche che investono la “carne” e in definitiva i transiti identitari, i movimenti di soggettivazione, qualificandoli anche nel loro residuare “entità mostruose”, così come poi le raccoglie il “gotico post-moderno”, cioè “l’immaginario sociale teratologico delle società post-industriali”.
L’intenzione cartografica è quindi quella di affrontare senza pregiudizi, con sensibilità nomadica e rizomatica, soprattutto i cyber-mostri delle società caratterizzate dall’affermazione del modello antropogenetico di produzione, proprio dei “mondi” di capitalismo digitale, per sondare un immaginario sociale in rapida trasformazione, che non può essere popolato soltanto dalle ansie delle (pseudo)-maggioranze tele-visionarie, mostrando anzi processi critici di divenire-minoritari o impercettibili, per dirla con Gilles Deleuze e Félix Guattari, sempre con un occhio di riguardo per il piano ontologico della realtà sociale, per quel prodotto del lavoro umano che come tale non può che essere attraversato da processi e pratiche di potere.