Mitologie curatoriali.
Nota su L'autunno caldo del curatore di Marco Baravalle
Enrico Camprini

08.01,2022

In L'autunno caldo del curatore. Arte, neoliberismo, pandemia (Marsilio, 2021), uscito lo scorso ottobre, Marco Baravalle affronta una serie di questioni davvero cruciali per chi oggi si occupa e riflette sia sul cosiddetto sistema dell'arte contemporanea sia sull'arte in se stessa.

Egemonia curatoriale, ruolo delle istituzioni, centralità degli spazi urbani e militanza artistica ne sono, ovviamente, generiche categorizzazioni: le questioni di cui l'autore si occupa sono infatti ben più complesse e circostanziate, di certo tra loro assai chiaramente intrecciate (lo dimostra anche l'omogeneità di un lavoro che mette sì assieme rielaborazioni di saggi pubblicati in diversi contesti, ma ne esplicita una continuità quasi programmatica).

L'indagine di Baravalle è un tentativo di tracciare una rotta, o meglio delle linee di fuga, nel contesto di un mondo dell'arte, quello attuale, a trazione oramai prepotentemente neoliberale; un tentativo che suona come un invito rivolto a tutte le soggettività – artisti, curatori, operatori culturali, ma anche le istituzioni stesse – coinvolte nell'attuale momento di crisi a sperimentare soluzioni radicali per stimolare processi creativi di ordine collettivo la cui performatività possa di fatto indirizzare mutamenti sociali.

Due premesse: la prima, riguarda appunto tale crisi, che, contrariamente a quanto si può immaginare dal titolo del libro, non è data in sé dalla pandemia.

Certo, l'emergenza COVID-19 rappresenta un ostacolo enorme il quale, tuttavia, così come per gran parte delle criticità sociali in generale, anche per l'universo delle arti si manifesta come un poderoso acceleratore eventi già in atto, e della nostra presa di coscienza su di essi. Insomma, non tanto, o non solo, una ferità a sé quanto l'incancrenirsi di una vecchia piaga.

La seconda, riguarda la prospettiva assolutamente militante assunta dall'autore. Per Baravalle le pratiche artistiche, curatoriali ed estetiche in generale sono, appunto, inscindibili dall'individuazione di nuove forme di organizzazione sociale. Questo appare chiaro in un libro che, prendendo a modello diverse esperienze creative autonome o – per dirla con l'autore – alteristituzionali, si presenta come un prontuario di strategie per un'arte che sia “politica” nel suo senso più profondo.

La ragion d'essere di certe pratiche artistiche indipendenti esemplificate da esperienze nazionali e internazionali (ad esempio Sale Docks a Venezia, di cui Baravalle stesso è attivista e animatore) si situa nella consapevolezza di come la crisi neoliberale del sistema artistico abbia radici storiche e concettuali ben precise, la cui disamina occupa la prima metà del libro e che, a mio parere, offre gli spunti critici di maggiore interesse.

In che senso “Autunno caldo del curatore”? Il testo si apre con un collegamento per certi versi sorprendente. Nello stesso anno, il 1969, e a pochi giorni di distanza tra loro, hanno luogo due eventi decisivi: la rivolta di Corso di Traiano che anticiperà l'Autunno caldo in Italia e le dimissioni di Harald Szeemann dalla direzione della Kunsthalle di Berna.

Sulle ragioni di questo curioso accostamento, l'autore scrive: «Perché accostare fatti apparentemente così distanti tra loro? Le lotte operaie e gli albori della curatela indipendente? Perché si vuole mettere in luce come quest'ultima cominci a delinearsi alla fine degli anni sessanta, dentro e in sintonia con l'ampia vicenda della risposta padronale ai movimenti sessantottini. Una risposta che comportò un salto di paradigma produttivo verso il cosiddetto “postfordismo” e che si espresse anche per mezzo della cooptazione neoliberale delle istanze di autonomia proprie di quella protesta» (p. 19).

Questo passaggio introduttivo è forse la chiave di tutta la prima parte del libro. La nascita, e la connotazione, della figura del curatore indipendente si nutre di un'ambiguità di fondo data, da un lato, dalle spinte di rinnovamento sociale e culturale di fine anni 60 e, dall'altro, dalla risposta che il sistema capitalistico già stava predisponendo.

Insomma, quel 1969 per Baravalle sembra segnare simbolicamente l'affermarsi sia di forti istanze collettive sia l'inaugurazione, nel campo delle arti, di “mitologie individuali”, per dirla proprio con Szeemann. È, appunto, il caso di figure aurorali della curatela come Szeemann ma anche, vorrei aggiungere, Germano Celant. Entrambe legate a una radicalità di approccio figlia dello spirito sessantottino e di una vocazione militante – penso agli Appunti per una guerriglia di quest'ultimo – su cui, a distanza di anni, è giusto porre ben più che qualche riserva.

Dunque, senza nulla togliere all'importanza storica dell'opera e delle mostre organizzate, Baravalle non può che rilevare la paradossalità di una stagione in cui l'urgenza di organizzazione collettiva e rivendicazioni strutturali ben definite si accompagnano a una risposta altrettanto strutturale del sistema capitalistico nei termini di innovazione culturale.

Il modello Szeemann emerge quindi come «del tutto funzionale all'affermazione di un'antropologia neoliberale del lavoratore culturale: un imprenditore del sé, individualista e al tempo stesso iperconnesso, contemporaneamente complice degli artisti e romantico genio solitario» (p. 21).

Una mitologia individuale coincidente con un'esigenza di ristrutturazione capitalistica che lascia inevitabilmente il segno. Non certo un'unica via: il tentativo critico-curatoriale di Enrico Crispolti nella sezione L'ambiente come sociale della Biennale di Venezia del 1976, l'autore ricorda, è un esempio importante di effettiva azione estetico-politica calata nel contesto delle rivendicazioni dell'epoca.

Tuttavia, è innegabile che il modello inaugurato da Szeemann si sia rivelato egemone. Non solo: si articola e ispira nuove mitologie individuali e curatoriali, quelle incarnate da Nicolas Bourriaud e Hans Ulrich Obrist, altre figure centrali della prima parte del testo.

In questo senso, Baravalle definisce i due come «protagonisti di una svolta governamentale della curatela». Il concetto foucaultiano di governamentalità è qui utilizzato per evidenziare la messa a valore in chiave neoliberale della forte tensione micropolitica all'intersoggettività di pratiche artistiche e operazioni culturali.

Il riferimento teorico è ovviamente l'Estetica relazionale di Bourriaud che, nell'analisi assai condivisibile di Baravalle, appare quasi come un almanacco di buone pratiche comunitarie, prive della forza di rivendicazioni strutturali, ma già predisposte a una valorizzazione creativa di sistema.

L'altra mitologia individuale è quella di Obrist che, dal canto suo, della dimensione governamentale della curatela rappresenta l'aspetto non teorico, ma performativo.

Nessuno più di lui ha portato alle estreme conseguenze il modello Szeemann (attraverso Bourriaud) e ha «trasformato la relazionalità da condizione generale del lavoro a prodotto principale della sua prassi» (p. 42). La pratica di Obrist, nota ancora l'autore, è specchio delle condizioni del lavoro contemporaneo in ambito culturale e non solo: commistione tra vita e lavoro, managerialità creativa, onnipresenza, flessibilità, instancabile progettualità.

Si potrebbe dire, spero senza banalizzare troppo, che dall'urgenza di rivendicazioni sociali e di collettività politicamente attive di fine anni 60 si sia giunti a una messa a valore sistemica di performatività intersoggettive, individualizzate e depotenziate.

L'intento di Baravalle, come ho accennato sopra, è quello di tracciare una rotta per recuperare un potenziale forse perduto, lavorare per quella che lui definisce “un'arte del comune” le cui strategie si sviluppano per tutto il testo, proprio a partire dalla decisiva consapevolezza di quale sia lo scenario storico e critico da cui muovere.