Millepiani 42 il motivo del deserto
Melania Moltelo

20.05.2021

Il n. 42 di Millepiani nasce da una urgenza condivisa/condivisibile di affrontare il discorso “ecologico” al di fuori del riduzionismo operato dalla tradizione, aprendo lo sguardo a più ampie prospettive antropologiche e politiche. Come sottolinea Tiziana Villani, nel suo denso contributo, si tratta di farla finita con l’appiattimento della questione ambientale su una retorica consolatoria che lascia inalterati tutti i processi di dominio e devastazione: “la riflessione che occorre fare deve chiamare a confronto tutti quei percorsi di ricerca e movimento che si stanno misurando non solo con la crisi ambientale, ma anche con tutto ciò che questa sottende”.

In questo lavoro collettivo di ampio respiro mi sembra interessante la proposta della “sezione artistica” come tentativo di pensare (meglio: sentire) diversamente le occasioni di intervento nel reale, in una prospettiva tanto efficace da superare l’idea dominante di un disarmo dell’arte e la relegazione di essa in uno spazio perfettamente istituzionalizzato e inglobato nel “tempo libero” come sofisticata approvazione del vigente, a mo’ di un’ora d’aria in un carcere che ha il cielo come soffitto. Mi sembra che possa ancora valere oggi l’osservazione adorniana per cui l’arte diventa, nella sua riproposizione enfatizzata del mondo così com’è, “una iniezione di vitamine per uomini di affari stanchi” e un ristoro comandato di un corpo ridotto a corpo del lavoro. È per questo che bisogna insistere su tutte quelle pratiche marginali che rendono incognito lo spazio dell’arte e smantellano le tradizionali categorie, spesso coincidendo con operazioni che non si lasciano catturare e comprendere con facilità proprio per il carattere “inedito” del loro contatto con la realtà sociale.

Marco Scotini ed Elvira Vannini riprendono un motivo che mi appare particolarmente suggestivo e mi riporta alle “traversate” di Gianni Celati alla ricerca della ventosità di una vita libera: il motivo del “deserto”. Il deserto, si legge, proprio come “teatro del vento”, è “anche l’origine di una nuova posta in gioco della vita come tale, un genere di scienza minore per Gilles Deleuze e Félix Guattari”. Questa idea di una scienza vagabonda in cui si inscrivono eterogeneità e variazioni continue contrasta con una “scienza di Stato” che si costruisce sui parametri dello stabile, dell’identico, del fisso. Pensare il deserto vuol dire, in qualche misura, difendere l’“esodo” come metafora di una particolare filosofia politica volta a lasciare “la terra del Faraone” e non a prendervi potere: questo movimento esemplifica la “necessità” di una creazione radicale di alternative e di nuove forme di vita, che non si risolve in una semplice negazione dello stato delle cose. Mi sembra una prospettiva affine alla concezione dell’arte di W. Benjamin, di fronte alla provocazione del teatro epico brechtiano, come irriducibile tentativo di trasformare un apparato piuttosto che di rifornirlo – anche con tematiche potenzialmente sovversive.

Tra le pratiche artistiche prese in considerazione dagli autori c’è l’attività eco-femminista dell’artista indiano Navjot Altaf e, soprattutto, la “metodologia collaborativa” che è andata a costruirsi attraverso la sua pratica quotidiana con le comunità indigene e i suoi progetti collettivi con artisti rurali. Questo esperimento non è diretto solo alla contestazione delle disuguaglianze, ma si pone come una rottura degli schemi e delle divisioni acquisite tra esperti e non esperti, producendo nuovi discorsi in grado di scardinare qualsiasi logica della gerarchia. Nancy Adajana ha definito questo processo artistico come “devoluzione”: l’artista può aiutare le minoranze senza mettere in gioco il proprio privilegio, ma la devoluzione “implica che l’artista sia sostanzialmente e visceralmente nell’atto di dare”.

In conclusione, questo sguardo aperto agli esercizi di dissenso, verso spazi lontani da quelli soliti, attraverso i deserti in cui fare piazza pulita delle scorie di un linguaggio ufficiale/ufficializzato, mette in luce l’importanza dell’arte nel sovvertimento del dominio e ci restituisce una idea “scomoda” della pratica creativa, ma l’unica in grado di rendere giustizia ai suoi potenziali: un incessante e inevitabile rischio del proprio privilegio di “lavoratore dello spirito”.