Merleau-Ponty e la storia (1)
Manlio Iofrida
02.08.2021

Faccio seguire la trattazione su Merleau-Ponty a quella sul protogeometra di Husserl perché certo il filosofo francese ne è stato uno dei primi interpreti e il più creativo fra coloro che lo hanno ripreso; ma sarebbe assai riduttivo pensare che il discorso sulla storia del filosofo francese possa consistere nella semplice ripresa di un solco fenomenologico – e altrettanto lo sarebbe se lo si volesse ricondurre nell’alveo di Heidegger o se lo si configurasse come un vieto rimpallo fra Husserl e Heidegger.

Un’altra leggenda da sfatare, o per lo meno da ridimensionare, è quella secondo cui la Francia avrebbe dovuto attendere la generazione di Merleau-Ponty – quella immediatamente successiva alla II guerra mondiale – per scoprire la storia. A questo proposito, si tenga conto di due fatti semplici, anzi elementari: Merleau-Ponty appartiene a uno dei due paesi occidentali che, nel XVIII secolo, aveva messo in atto una rivoluzione (l’altro, lo si sa, sono gli Stati Uniti): il filosofo francese ha dunque dietro di sé un paese e più di un secolo che la storia (in specie quella moderna) non solo la conoscevano, ma l’hanno inventata; 2) quando il nostro filosofo aveva nove anni, nel 1917, il mondo era stato scosso da un’altra grande rivoluzione, quella bolscevica, che aveva posto un grande interrogativo sulla civiltà e quindi sulla storia occidentale e che aveva messo in primo piano non solo il proletariato, ma anche tutti i popoli delle colonie.

L’Europa, e la Francia all’interno dell’Europa, aveva ben capito la lezione: era un intero registro di valori che era messo in discussione, era un’intera civiltà che tramontava e, non c’è dubbio, questo significava che la storia si era messa in moto ulteriormente, perfino oltre il 1789. 3) come se non bastasse, alle spalle del nostro filosofo c’era anche un’altra rivoluzione – scandalizzando qualcuno, mi permetterò di dire che essa non era meno importante delle prime due, anche se, certo, senza di esse non avrebbe potuto aver luogo: fra la seconda metà del XIX secolo e i primi dieci anni del XX, la Francia era stata l’epicentro di una rivoluzione culturale, di una trasformazione profonda delle categorie teoretiche e insieme del sentimento estetico che avevano dominato l’Occidente a partire dal miracolo greco e, soprattutto, da quello rinascimentale e fiorentino: un modo di vedere il mondo, una vera e propria Weltanschauung, che era nata con Platone e Euclide e che poi era stata trasformata nel paradigma della modernità da Masaccio, Botticelli, Leonardo e Michelangelo – l’idea che un quadro fosse una finestra aperta per rappresentare mimeticamente il mondo e che la prospettiva geometrica fosse la chiave di tale rappresentazione – tutto ciò era stato mandato in soffitta attraverso una rielaborazione che era durata mezzo secolo; al termine di essa, era nato veramente un nuovo mondo (che è poi quello in cui viviamo ancora, a dispetto dei tanti nichilisti e catastrofisti e teorici delle “fini”): il mondo di Cézanne, di Picasso, di Braque, ma anche di Proust e di Joyce.

D’improvviso, era un nuovo volto del reale, una nuova idea di natura, un nuovo modo di rapportarsi del soggetto al mondo che era emerso attraverso un travaglio culturale enorme, che fra i suoi prodotti, a Parigi, nel 1895, aveva visto anche nascere una settima arte, il cinema.

È sullo sfondo di queste tre rivoluzioni, di cui egli era figlio e che portava nelle sue fibre più profonde, che Maurice Merleau-Ponty incontrò la fenomenologia di Husserl negli anni Trenta. La Francia era uscita nominalmente vittoriosa dalla prima guerra mondiale, ma alle giovani generazioni intellettuali era chiaro che Francia e Germania, l’una sconfitta e l’altra vincitrice, erano coinvolte in una crisi radicale, che metteva in discussione tanto la Civilisation che la Kultur; il giovane filosofo, approdato cattolico nazionalista alla Scuola Normale della Rue d’Ulm, ben presto si legò al personalismo di Mounier e a “Esprit”, poi, complice la condanna da parte della curia romana dell’Action Française e la guerra di Spagna, venne ben presto a collocarsi sul terreno del marxismo e del movimento operaio.

Ma come poteva legarsi la fenomenologia a un’apocalittica marxista? Si trattava di una concezione della storia che riproponeva una banale concezione progressista e lineare, come in fondo è quella del marxismo? Se una cosa è certa, è che anche il primo Merleau-Ponty non è inscrivibile in una simile visione: la sua idea di storia è infatti fin dall’inizio segnata dai temi della percezione e della natura; in questo senso, se di apocalittica si può parlare, non è di quella marxista e produttivista, ma di un’idea di redenzione della natura dal prometeismo dell’azione umana e umanistica che è tipica dell’Occidente, come attesta questo passo che il giovane Merleau-Ponty vergò nel 1935:

Il prometeismo, la religione della civilisation, è ben lontano dall’essere indispensabile alla « dignità umana». […] Quanto sarebbe meglio insegnare il commercio e l’amicizia con la natura, che questi fieri citoyens [= gli esponenti della civilisation] corrono il rischio di attraversare senza nemmeno vederla. Ma a quanti cristiani sarebbe pure necessario ricordare l’esistenza di San Francesco d’Assisi? (M. Merleau-Ponty, Christianisme et ressentiment, in Parcours deux, Verdier, Paris, 2001, p. 30; tr. it. di chi scrive)

Precedendo di ottanta anni il messaggio dell’enciclica papale Laudato si’, Merleau-Ponty si richiamava dunque alla predicazione di San Francesco per proporre un’ amicizia con il creato; non si può comprendere il suo approccio a Husserl e la sua interpretazione della fenomenologia se non si tiene conto di quest’idea di una redenzione della natura che è alla base della sua idea di storia.

In questo giocavano certo le due rivoluzioni politiche – quella francese e quella russa – di cui abbiamo parlato, ma altrettanto fondamentale era quella culturale, il nuovo modo di vedere il mondo inaugurato da Cézanne: Cézanne aveva insegnato a rivedere il reale e il mondo in un modo che liberava entrambi dalla presa del soggettivismo e del prometeismo occidentali, del suo produttivismo: a monte dell’azione umana, si riscopriva una realtà naturale selvaggia che non era un originario, ma un sempre nuovo, un assoluto non umano, un mondo materiale che era assai più antico dell’uomo e radicalmente estraneo alle sue finalità: di questo si nutriva la nuova idea di storia, a questo era riportato l’appello husserliano alle cose stesse, al concreto, all’incarnazione dell’universale nell’individuale: come in Auerbach, la storia non era, niccianamente, un riportare il presente al passato, ma un suo esplodere nel presente: non che nemica della vita, la storia ne era l’espressione più alta, perché era il momento del rifarsi vivo e presente della natura, la possibilità della sua redenzione.

Non si trattava di scegliere fra natura e storia, fra scienze naturali e scienze umane, fra linea e circolo, fra conservazione del vecchio e istituzione del nuovo, fra differenza e ripetizione; così la strada del protogeometra si incontrava con quella del pittore e il solco della natura e quello della storia, attraverso il concetto di istituzione, potevano diventare un tutt’uno.

Per completare questo programma, era però necessaria l’esperienza dello strutturalismo: allora il concetto di istituzione avrebbe potuto sorgere come essenzialmente legato a un momento di passività e di ripetizione, la cultura essere vista non come l’annullamento, ma come il complemento della natura e la storia essere legata in modo essenziale allo spazio. È quello che vedremo nella prossima puntata, in cui partirò dalla crisi della rivoluzione sovietica.