Megamacchina e implosione del quotidiano
Tiziana Villani

30.01.2022

L’apparente ritorno alla normalità, l’aspirazione a pensare che le cose prima o poi torneranno com’erano, testimonia la difficoltà nel fare i conti con quanto è già accaduto, quanto sta accadendo.

La resistenza ad esprimere la difficoltà di adeguarsi all’attuale fase dipende da molti fattori, in primis il sentimento di precarietà e incertezza che segna e scrive una quotidianità stravolta.

Come indicava Gorz negli anni 2000 la critica delle condizioni di vita, del lavoro, non solo risulta ancora necessaria, ma deve adottare anche una prassi capace di operare già nel presente nei termini di ripensamento complessivo del contesto in cui ci troviamo proiettati. (A. Gorz, Miseria del presente, ricchezza del possibile, 2005).

Tuttavia, la condizione di sfilacciamento, atomizzazione, ripiegamento e solitudine costituisce una solida barriera nei confronti della quale pare insufficiente ogni azione puramente intenzionale.

La megamacchina (il concetto appare certamente in A. Gorz che a sua volta lo riprende da G. Anders) è sempre più vuotata di senso, ma pervicace nel voler riprodurre se stessa, i propri apparati costitutivi, le proprie forme di controllo. Ma è il tempo, l’esperienza del tempo, quella che appare più inquietante, il tempo accelerato e il tempo che la pandemia ci prescrive di attraversare, appaiono come due modalità dissonanti, il primo predica ancora la creazione di vettori gettati in un futuro che si vorrebbe come replica di un passato imperturbabile, il secondo apre alle fratture, agli smottamenti che fratture di senso, di progetto e che rimettono al centro l’esperienza dell’animale che siamo, esposto fragile e sottoposto a quella che per certi versi Illich denunciava come tecnocrazia del sapere medico-tecnico e scientifico.(I. Illich, Nemesi medica, 1976).

Una simile espropriazione di esistenza non è paragonabile con le esperienze di guerra, la connotazione planetaria, la percezione della morte vissuta come una catena di produzione industriale in cui il “nemico” resta indecifrabile e imprevedibile, ci dicono di un nuovo tempo. I riti del quotidiano prendono così a svolgersi secondo monotone consegne e azioni che devono essere interrogate, ma eseguite in questo stile di vita “replicante”.

Il “corpo vivente vissuto” di cui parlava Merleau –Ponty (M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, 1945) risulta essersi trasformato nell’Altro sartriano, ossia in un veicolo di un quotidiano routinario che se fuoriesce da questa stessa routine si trasforma in minaccia.

Lo svuotamento di senso è di sicuro acuito da questa esperienza, per molti aspetti totalizzante, un’esperienza non condivisibile se non attraverso retoriche e sfilacciate ideologie che risultano molto deboli alla prova dei fatti.

Il trasformarsi della politica in uno scenario a tratti inconsulto, consiste proprio nel suo progressivo movimento di distanziamento da quanto è accaduto e accade, un distanziamento talmente farsesco da non rendersi conto che le narrazioni più o meno consolatorie elargite a un pubblico senza volto mostrano solo il volto nientificante della menzogna.

Consiste in questo il voler persistere attraverso schemi che non accettano alcuna messa in discussione. C’è qualcosa di folle e di saggio al contempo in questo paradossale lavoro sui frammenti, che continuano a disperdersi e che ostinatamente cerchiamo di ricomporre. Siamo creature della ripetizione che faticano nell’intuire le differenze, (È chiaro il rimando con torsione mia al testo di G. Deleuze, Differenza e ripetizione, 1968), eppure le differenze si sono date e si vanno sempre più decisamente affermando.

Al “tutto come prima” si contrappone il “mai più come una volta” e questo movimento travolge tutti i piani che dovrebbero costituire un sociale condiviso, dalle istituzioni al lavoro, dall’attribuzione di senso a nuove progettualità.

È così impossibile far finta di nulla, volersi ancora ostinatamente abbarbicati a certezze di fatto liquidate, il sentimento prevalente dello smarrimento e della paura ci rende ciechi, incapaci di afferrare l’accadere, forse solo i margini sembrano praticabili come suggerisce Zerocalcare, (Strappare lungo i bordi, 2021) ma di questo non si può essere soddisfatti, il rimando è quello che evoca le esperienze totalitarie, in cui l’individuo ridotto a vivere come uno scarto autoreferenziale soffre della mancanza di alleanze e di affetti e in definitiva patisce l’assenza di una condizione politica intesa come “corpo vivente”.