Didascalia, assonanza e ridondanza
Matteo Gaspari
THUMBNAIL, Asterios Polyp © David Mazzucchelli / © per l’edizione italiana Coconino Press – Fandango

18.12.2022

In ogni fumetto (almeno, in ogni fumetto ben fatto), testo e immagine procedono in una stretta relazione generatrice di un senso che è maggiore della somma delle parti. Per dirla in altri termini, il fumetto è un linguaggio complesso che si muove in un regime di riverbero semiotico nel quale nessun elemento è ancillare all’altro: parola scritta e disegno sono sì entrambi significanti in sé (e in quanto tali portatori in sé di significato), ma il significato complessivo del testo tutto emerge dal raffronto continuo dei due. Vale a dire dalla decodifica della loro relazione orizzontale (cioè simultanea e a-gerarchica) più che dalla loro lettura verticale o sequenziale (varrebbe a dire l’estrazione di senso da una componente mentre l’altra funge da abbellimento o da chiarimento successivo).

Tagliando con l’accetta le forme che questa interconnessione può assumere, potremmo dire che ci si muove grossomodo tra due estremi: da un lato la completa assonanza, dall’altro la totale dissonanza. Assonanti sarebbero quei casi in cui la componente visiva e quella verbale puntano nella stessa direzione e il senso si genera, solo all’apparenza in modo più lineare e di facile decodifica, per affinità invece che per contrasto, per moltiplicazione semantica invece che per frammentazione.

I dialoghi nei balloon sono di solito un buon esempio di assonanza, soprattutto se anch’essi sono sorretti da una dimensione visiva, come nel famoso Asterios Polyp in cui ogni personaggio parla con il suo stile di scrittura e con una sua forma di balloon, a rappresentarne tono di voce e carattere. Così un personaggio arrabbiato avrà il volto arrabbiato e dirà parole arrabbiate in caratteri arrabbiati. Oppure un personaggio in preda a una crisi di libido avrà un portamento lascivo, un sorriso un po’ ebete in faccia e parlerà a fatica parole di zucchero mentre il balloon che le contiene si disfa poco a poco assieme alla volontà di resistere alla seduzione. Assonanza, appunto.

Ma più dei dialoghi nei balloon, a essere portatrice di questa assonanza è stata, storicamente, la didascalia. Elemento via via più minoritario del fumetto contemporaneo per via dei rischi che comporta, perlomeno nella sua accezione classica: il modo più basilare in cui può essere declinata ricade con estrema facilità in un regime di sequenzialità o verticalità, affievolendo la portata dell’interconnessione semiotica generativa che si diceva qualche riga fa. “Didascalico” è insomma diventato un termine insindacabilmente negativo quando si parla di fumetto proprio perché indica l’egemonia di una componente verbale ridondante e quindi inutile o viceversa prioritaria laddove si fa carico delle mancanze reali o percepite della sua sorella visiva. Un buon esempio potrebbe essere il noto “Nel frattempo a Topolinia” che, con l’intento dipanare la discontinuità di un taglio di montaggio, verbalizza una localizzazione temporale e una spaziale. Sul piano del rapporto semiotico tra le componenti del linguaggio, la parola scavalca in gerarchia l’immagine in entrambe le localizzazioni: è l’unica portatrice di informazione (temporale) oppure è portatrice di una informazione ridondante (spaziale).

Ma possiamo pensare anche a esempi più recenti. L’adattamento a fumetti del bel racconto di Shirley Jackson La lotteria, pubblicato nientepopodimeno che da Adelphi, fa un ampio uso di didascalie assonanti e verticalissime. L’intreccio, nella sua versione a fumetti, si apre con due uomini che nottetempo preparano il necessario per quella che scopriremo essere l’annuale lotteria del paese. L’atmosfera è cupa, silenziosa, solenne, a suo modo drammatica. A lavoro ultimato, a pagina 18, uno dei due figuri aggiorna il calendario prima di rincasare. È un calendario di quelli in cui ogni giorno ha il suo foglio, che viene poi strappato per rivelare il successivo: nella terza vignetta vediamo quindi la mano dell’uomo prendere il foglietto del 26 giugno, nella quarta il foglio del 27 giugno. Stacco. Pagina 19 si apre la mattina successiva: la luce del giorno illumina un calendario analogo a quello appena visto, aggiornato al 27 giugno. Una donna scruta fuori dalla finestra. Nella terza vignetta, a sovrastare la veduta estiva oltre il vetro, la prima didascalia di un volume che ne era finora piacevolmente privo: “La mattina del 27 giugno era limpida e assolata, con un bel caldo da piena estate”. Giusto nel caso un lettore particolarmente distratto non avesse notato il cielo terso, o peggio si stesse chiedendo che giorno fosse… C’era davvero bisogno?

Quest’utilizzo della didascalia, che per nostra gioia si avvia al viale del disuso, tradisce una sfiducia nel potere narrativo delle immagini (o nell’abilità del lettore di decodificare quel potere) e affida così alla parola il compito di esplicitare e ribadire. Suggerisce insomma che assonanza sia sinonimo di ridondanza. Ma non è così! Il rimbalzo tra le componenti è (o meglio, dev’essere) generativo anche quando queste si muovono in parallelo e perfino la didascalia, quando utilizzata con maggior finezza, può generare effetti di senso invece che limitarsi a verbalizzarli.

Abbiamo già citato, nel corso di questa rubrica, la bella raccolta di Chris Reynolds intitolata Un mondo nuovo. Nel primo racconto davvero breve del libro, La ricompensa umana di Monitor, vediamo appunto Monitor – personaggio ricorrente e fondamentale della cosmogonia informale di Reynolds – trovare lavoro in un bar.

IMMAGINE CHRIS REYNOLDS, Un mondo nuovo© Chris Reynolds, 2018, per l'edizione italiana © Tunué, 2019

La voce fuori campo che narra la vicenda, in perfetto parallelismo con ciò che vediamo all’interno delle nove vignette immancabilmente regolari, ci racconta che:

  1. testo: già dopo due settimane Monitor odia il suo lavoro || disegno: Monitor al lavoro;

  2. testo: i clienti entrano nel bar solo per dargli sui nervi (e puzzano molto) || disegno: cliente (mamma con neonato che strilla);

  3. testo: Monitor è bravo a non dare a veder il suo fastidio || disegno: Monitor imperturbabile.

Fino a qui tutto in ordine, al limite del didascalismo: il testo descrive esattamente quanto vediamo disegnato e viceversa, con al più (ma volendo esagerare) qualche sfumatura semantica che traspare dal raffronto delle due componenti (i clienti puzzano significa che il neonato va cambiato?). L’autore sta in qualche modo comunicando al lettore la completa trasparenza della sua scrittura: “quello che vedi è quello che leggi e quello che leggi è quello che vedi”, sembra suggerire. Ma poi…

  1. testo: la parte migliore della giornata è andare a dormire, il che rende l’alzarsi ancora più difficile || disegno: Monitor seduto sul letto (è sera o mattina?);

  2. testo: l’unica cosa piacevole del bar sono le finestre || disegno: finestra inquadrata dal basso (la stiamo vendendo dagli occhi di Monitor?);

  3. testo: il vetro ingiallito delle finestre lascia entrare un sacco di luce nel locale || disegno: sempre finestre (in bianco e nero), stavolta però inquadrate da un punto di vista altro, più altro. La luce che entra è abbagliante e le ombre nettissime;

  4. testo: a Monitor piace osservare fuori dalle finestre, lasciar correre lo sguardo giù nel villaggio e poi nella vallata || disegno: Monitor intento a fissare fuori dalla finestra (non siamo più nei suoi occhi, ora!);

  5. unica vignetta muta della pagina || disegno: siamo usciti fuori, vediamo il paesaggio giù nella vallata senza la prigione di vetro da cui lo osserva Monitor (vedi vignetta precedente);

  6. testo: è il suo modo per uscire dal bar || disegno: altro paesaggio.

Ecco, la prima striscia stabilisce la perfetta assonanza tra testo e immagine e quest’assonanza non viene mai davvero tradita. C’è sempre parallelismo tra immagine e testo, ma il loro rapporto si complica, si fa meno ovvio, più generativo. Stiamo vedendo Monitor alzarsi o andare a dormire? Perché attribuiamo valore alla differenza? D’altro canto, se anche sta andando a dormire poi dovrà alzarsi e il momento bello non sarà che un ricordo cui aggrapparsi per arrivare al successivo. La sua vita (la vita in generale) è davvero così futile? Stiamo guardando le finestre con i suoi occhi? Siamo con lui o, su un piano simbolico, siamo lui? Stiamo lasciandolo al bar per vedere il paesaggio il paesaggio della vallata così com’è o stiamo invece accompagnandolo con la mente nella sua fuga immaginaria? Se questo è il caso, il paesaggio che osserviamo assieme a lui è reale o una sua ricostruzione mentale basata su ricordi e desideri?

Le domande si moltiplicano assieme allo spaesamento generato da un racconto sempre inafferrabile, che poco alla volta scivola nell’inaffidabilità della memoria, nel susseguirsi di dati di realtà che forse non sono tali, nella concatenazione di eventi uniti da nessi causali opachi e narrati da una voce né onnisciente e distaccata né del tutto parziale e coinvolta. Nella lettura, oscilliamo di continuo dal dentro al fuori, dalla soggettività dei mutevoli punti di vista all’oggettività di una rappresentazione esatta nei suoi bianchi e neri così poco ambigui, dalla prima persona di alcuni sguardi alla implacabile terza persona di testi che verbalizzano luoghi inequivocabili perché di fronte a noi nel disegno oppure simbolici perché parte dell’immaginazione dei personaggi.

Credo che buona parte dello spaesamento che si prova leggere Chris Reynolds, quel senso di “starò veramente afferrando il punto?”, derivi proprio da questa costante impossibilità di distillare un senso univoco da quel rapporto di quasi-sovrapponibilità tra parola e immagine; un rapporto così cristallino nella sua assonanza eppure sempre destabilizzante perché si rompe di continuo. Riafferma un ovvio per nulla ovvio prima di scartare di nuovo verso un ignoto che si fa esplicito rimanendo al contempo ignoto; ripercorre con parole oggettive e lapidarie tanto fatti inconciliabili con la ragione quanto sentimenti di un personaggio imperscrutabile sotto il suo casco; corrobora quelle parole con immagini altrettanto oggettive e lapidarie che ne amplificano il portato semantico più di quanto se ne facciano manifestazione visiva; mostra scene di cui percepiamo chiaro il significato a seguito della loro descrizione verbale, ma solo fintantoché non ci accorgiamo che più che una descrizione quella o quell’altra didascalia non sono che interpretazioni, dispositivi di moltiplicazione del senso portatori di discrepanze insondabili nella danza all’apparente sincronica di parola e disegno.

Trovo sempre che i racconti di Chris Reynolds, soprattutto i più brevi, che virano più intensamente nella direzione del componimento poetico, siano un ottimo controesempio all’idea della didascalia come assonanza ridondante, e anzi poggino tutta la loro ragion d’essere sul rimbalzo magari inaspettato tra parola e disegno. Dico “magari inaspettato” perché può essere che siamo talmente abituati a “Nel frattempo a Topolinia” da ritrovarci a leggere Reynolds – e altri come lui – scivolando in fretta nell’ottimizzazione del “leggere le parole e guardare i disegni” e scambiando di conseguenza un lavoro di fino di assonanza generativa per superficialità e mancanza di profondità. È invece necessario abituarsi a leggere il rapporto tra le componenti più che le componenti stesse. Un leggere che è anche uno stare e che appare forse più evidente nei casi di dissonanza, più o meno pronunciata. Perché lì non è tanto una questione di fino e il compito diventa, in maniera più esplicita, incastrare due pezzi di un puzzle che no, se presi uno alla volta non combaciano per niente.