Marxismo e heideggerismo alla Rue d'Ulm: ambiguità di una critica
Manlio Iofrida

25.06.2022

3. Perché la alleanza fra Heidegger e Marx ha segnato in modo così profondo il pensiero francese del ‘900? Pensiamo agli intellettuali francesi nella complessa situazione storica che abbiamo cercato di schizzare: da un lato avevano lo stalinismo e il marxismo ossificato; dall’altro, il dominio americano, che rappresentava (e rappresenta tuttora) la cancellazione insieme della Kultur e della Civilisation; infine, si presentavano i paesi del Terzo Mondo (cioè molte delle loro colonie sulla via della ribellione) che si proponevano come alternativa alla razionalità occidentale, al weberismo, all’utilitarismo: è così sorprendente che quegli intellettuali riconoscessero delle affinità con Heidegger, che negli anni Trenta aveva vissuto, mutatis mutandis, una situazione analoga?

Non c’erano degli aspetti critici fondamentali nella critica che egli faceva del capitalismo? E la crisi dello stalinismo non gli dava ragione anche sul marxismo? Non si doveva tentare una critica al capitalismo non in nome dell’economia e della storia, ma richiamandosi a un’ontologia che sembrava sottrarsi all’utilitarismo, al teleologismo, all’individualismo del borghese occidentale?

È questa la strada che batterono in modo diverso una prima generazione di filosofi formatasi negli anni trenta – i cosiddetti esistenzialisti; e poi, la generazione poststrutturalista, che aveva i suoi mentori più diretti in Bataille, Blanchot, Beaufret e Hyppolite.

È essenziale però distinguere la posizione di queste due generazioni. Certamente, Heidegger fu un punto di riferimento per Sartre e Merleau-Ponty, ma in modo meno subalterno; in particolare, l’opzione nichilistica, certo centrale nel suo discorso, è però da Sartre superata con l’impegno politico positivo che si congiungeva a un volontarismo tragico che rifiutava di abbandonarsi al destino e ad accettare l’esistente; quanto a Merleau-Ponty, nonostante alcune sue esitazioni finali veramente troppo ingenue nei confronti di Heidegger, egli impostava in modo deciso tutta la sua filosofia su un rifiuto del nichilismo, su una rivalutazione del corpo, del terrestre, del finito: non si parte, per lui, dal nulla, ma da un qualcosa che c’è , o (in singolare, anche se inconsapevole sintonia con Siegfried Kracauer) da una redenzione della realtà materiale.

Allorché rompono sia con Sartre che con Merleau-Ponty, invece, i poststrutturalisti si pongono alla scuola di Heidegger in modo molto più subalterno: fino all’ Archeologia del sapere Foucault sposa l’antiumanismo e il nichilismo di Heidegger fino in fondo, coniugandolo con un Nietzsche interpretato in modo da poter confluire con quelle posizioni: Le parole e le cose si concludono con la morte dell’uomo e l’Essere del linguaggio – una realtà nullificata, smaterializzata e ridotta a linguaggio; Derrida (per la sua originale strada) è ancora più profondamente heideggeriano e approda altrettanto a una riduzione del mondo a linguaggio; Deleuze è certo assai più complesso e contraddittorio, ma la sua adesione allo strutturalismo e larghe zone del suo libro su Nietzsche e di altre sue importanti opere vanno nella stessa direzione; soprattutto, si avverte, al fondo della sua filosofia, un'esitazione, una vera e propria ambiguità fra gioioso e positivo vitalismo e profondo nichilismo pessimistico .

Ma questa adesione (dichiarata, voluta o di fatto, non voluta) alla soluzione nichilistica heideggeriana non era un fatto meramente scolastico o di astratta teoria; si meticciava, nel caso degli allievi della Rue d’Ulm (di nuovo, Deleuze è più complesso) con un filone antico e tutto francese: sotto la guida di Althusser e di De Santi (come documenta un saggio di Althusser del 1955, fondamentale quanto generalmente ignorato, (Lenseignement de la philosophie, « Esprit », 1954, XXII, pp. 858 e sgg.), i giovani fenomenologi sviluppavano una fenomenologia antiesistenzialistica e heideggeriana che aveva nella scienza e nell’epistemologia, nella contrapposizione del concetto al soggetto il suo punto nevralgico; era a partire da Brunschvicg, dal cuore del grande razionalismo francese, dell’idea che la matematizzazione del mondo implichi la sua deumanizzazione, che si realizzava l’incontro con Beaufret e la Lettera sull’umanismo.

Questo sposalizio fra Bruschvicg e Heidegger, che è il sottofondo filosofico della cultura strutturalistica, così mostruoso e paradossale se visto dall’esterno, aveva invece delle necessità storiche, concettuali e politiche assai profonde: il forte razionalismo e lo scientismo che avevano costruito l’identità della Francia da Luigi XIV al positivismo, l’impronta classicistica non persasi nemmeno con la rivoluzione e tradottasi nel culto del formalismo, si sposavano con il secondo Heidegger (e costituivano una lettura certo possibile della sua riflessione successiva a Essere e tempo , così attenta al rapporto fra Essere e tecnica).

Che la Francia delle centrali nucleari e della seconda rivoluzione industriale che ho cercato di schizzare più sopra generasse questo impasto di formalismo, strutturalismo, scientismo e heideggerismo non è affatto sorprendente; ma è altrettanto indubbio che il nichilismo heideggeriano ne venisse addirittura accentuato, laddove la sua critica dell’umanesimo entrava nell’ombra della tecnocrazia e di tematiche postumaniste che risalivano agli anni Trenta.

Per quanto tutte queste posizioni si volessero rivoluzionarie, anticapitalistiche e di sinistra, questo modello di razionalismo antiumanistico e nichilista rendeva ogni alternativa disperata e individualista: non è un caso che la letteratura fosse indicata come alternativa alla politica, che l’unica soluzione apparisse sulle tracce del pessimismo di Flaubert, di Maupassant, di Verlaine e Rimbaud, di una parte del surrealismo e del loro anarchismo individualista. L’appello all’avvento del linguaggio dell’Essere e a una rivoluzione tutta culturale, tutta letteraria non toglievano ogni strada alla politica? E alla società dei consumi non si opponeva una alternativa che alla fine era ancora individualistica, poiché ogni progetto intersoggettivo appariva impraticabile?

Dunque, le ambiguità che abbiamo segnalato a proposito della situazione italiana, molto più provinciale (tutto sommato Vichy non è il fascismo, la Francia esce vittoriosa e non sconfitta dalla guerra, De Gaulle, soprattutto a causa dello statuto storico e geopolitico del paese che rappresentava, non è De Gasperi, Sartre e Merleau-Ponty non sono così ottocenteschi come in parte il pur grandissimo Benedetto Croce, su cui peraltro bisognerebbe tornare) non mancano nemmeno nel contesto francese: fra Lévi-Strauss e Foucault che fine fa la filosofia? Le parole e le cose non è anche un testo sulla morte della filosofia? E che dire della feroce e unilaterale critica al marxismo? Sartre aveva proprio tutti i torti? E che ne è della questione ecologica?

Lo stesso 68 francese, anche se globalmente voleva essere una rottura con tutte e due le generazioni dei suoi padri intellettuali, in gran parte continua queste ambiguità. Foucault non è Lyotard, né tanto meno Vattimo o Cacciari o Agamben, e sulla grande complessità e ricchezza della stagione strutturalista e poststrutturalista credo di essere stato chiaro più sopra, ma il fatto che il nichilismo fosse centrale nel complesso di queste prospettive e che esse rischiassero di lasciar spazio solo a soluzioni individualiste fa sì che anche ad esse risalgano delle responsabilità per la situazione filosofica di oggi.

Quanto agli anni 80-90 francesi, è ovvio che, dati questi precedenti storici assai differenti, siano difficilmente confrontabili con quelli italiani: in Francia non si trattava di ridare spazio a Husserl, a Heidegger, a Joyce e Proust e Woolf, lì tutto questo era stato di casa già fra le due guerre. Lì un marxismo iperstalinista come quello del PCF era stato eroso dall’operazione strutturalista di Althusser, fiancheggiato e contestato da Sartre e Merleau-Ponty, che avevano coniugato Husserl, Heidegger e Marx fin dal 1945, e dall’alleanza fra Marx e Heidegger sponsorizzata da Beaufret e Hyppolite, che ho cercato di illustrare.

Dunque, in Francia negli anni ottanta e novanta non c’è stato nessun crollo improvviso di una cultura marxista e nessuna sostituzione di Marx con Heidegger, tanto meno c’è stato un nichilismo radicale come quello che aveva nutrito un settore importante dell’operaismo italiano: né Foucault né Derrida né Deleuze possono esser confusi con Negri e Tronti e Agamben. E il fatto che quei rappresentati maggiori del pensiero francese del dopoguerra siano scomparsi fra il 1984 e il 2004 ha garantito, con momenti di crisi e di eclisse, una maggior continuità del tessuto filosofico e anche del discorso critico. Ma, se l’eredità italiana degli anni ’80 e ’90 è catastrofica, né quella francese degli anni ’60 né quella degli anni ’80-2000 è sufficiente per fondare un pensiero critico oggi. Nel mio intervento conclusivo cercherò di fornire qualche indicazione in positivo in questa direzione (continua).