Marcuse: una lettura dell'arte sempre attuale
Stefano Righetti

16.04.2021

Uno degli aspetti più evidenti della società an-estetica è il fatto che il suo immaginario è costretto a definirsi entro i margini dell’"alienazione". Ciò che esso immagina, invece che aprire a una differenza di valore, si pone come la ripetizione del medesimo e dei limiti a cui esso consente di aspirare. Il "libero gioco" dell’immaginazione cede così il passo a un immaginario che rimane vincolato al principio di prestazione, di cui è chiamato a rinforzare i valori.

Dire che il piacere generato da questo immaginario è an-estetico non vuol soltanto dire che esso è indotto e condizionato, ma che la sua espressione si "limita" all’apparenza (in quanto tale depotenziata) di ciò che il principio estetico del piacere aveva invece assegnato all’arte in termini di "libertà". Di conseguenza, anche l’attribuzione di un significato artistico alla produzione an-estetica non fa che porsi, da questo punto di vista, nei termini dell’ambiguità, o di una sostituzione di valore. La libertà a cui essa richiama non può che essere una libertà simulata.

E questo per un motivo: come ci ricordano le analisi di Barthes sui miti d’oggi, la ripetizione del medesimo fa sì che l’immaginario an-estetico funzioni sempre come la conferma del reale. Che si tratti dell’improbabile riscatto della prostituta che finisce sposa (riamata) del proprio ricco cliente, o dell’impossibile salvataggio di un gruppo di innocenti da parte di un eroe che devia il treno nel momento esatto in cui sta per travolgerli, l’unica cosa che conta, all’interno dello spettacolo, è la conferma di ciò che il pericolo (o la delusione) minacciava di mettere in discussione: una sensazione di sicurezza, il lieto proseguire della vita così com’è data e che lo spettacolo si incarica di far apprezzare come un valore in sé.

Parafrasando Leibniz potremmo dire che ciò viene costantemente sottolineato nell’immaginario an-estetico è il principio per cui l’attuale "sistema" è il migliore dei "sistemi" possibili, e la nostra soddisfazione, così come la nostra sicurezza, non dipendono che dal mantenimento del suo necessario equilibrio. Solo la pandemia ha vatto vacillare realmente questa certezza, e non è un caso se lo spettacolo è allora invocato da più parti (insieme alla riapertura dei bar e dei ristoranti) come "sano" ritorno a una condizione di "normalità", senza che questa normalità debba mai diventare il problema concreto e reale di un cambiamento necessario.

Distinguendo il ruolo dell’arte e dell’estetico dalla civiltà che si andava affermando, il Romanticismo, ci ricorda Marcuse, aveva messo invece in discussione questo appiattimento sul principio di realtà. La ripetizione "alienata" del reale, e del principio di prestazione su cui la civiltà cominciava allora a definirsi, sembrava escludere l’estetico insieme alla sua funzione liberante. Nelle Lettere sull’educazione estetica, Schiller dava di questa civiltà imminente un veloce ritratto: "il godimento è separato dal lavoro, i mezzi dal fine, lo sforzo dalla ricompensa. Eternamente incatenato soltanto a un piccolo frammento del tutto, l’uomo foggia se stesso soltanto come un frammento [...], egli diventa un puro e semplice calco della sua occupazione, della sua scienza".

La soluzione non può però consistere nel retrocedere verso un’ipotetica origine. Piuttosto, scrive Marcuse riferendosi a Schiller, "[p]oiché è stata proprio la civiltà che ha ‘inferto questa ferita nell’uomo moderno’, soltanto una nuova forma di civiltà può guarirla" (H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1964 p. 191). Schiller aveva indicato questa "ferita" nel formarsi, o solidificarsi, di una serie di dualismi sostanziali: quello tra sensualità e ragione, tra materia e spirito (forma), tra particolare e universale e, infine, ma del tutto decisivo, nel dualismo che ha distinto in modo irreparabile (all’interno della civiltà che si andava ormai definendo sul principio di prestazione) tra libertà e natura – allorché la libertà, declinata all’interno della prestazione tecnico-scientifica, si è concepita come dominio e negazione della natura. Invece che ricercare un equilibrio, affinché la sensualità (l’espressione estetica e sensibile) e la natura potessero accordarsi con la ragione e con la razionalità, "nella civiltà costituita", scrive Marcuse, "la loro relazione è stata antagonistica" (Ibid., p. 192).

Ma possiamo accordare all’estetico la funzione di immaginare una realtà "libera" (funzione attribuita "soltanto all’arte e [...] all’atteggiamento estetico"), solo se questa libertà non è a sua volta "impegnativa", sottolinea Marcuse. Se cioè essa "non impegna l’esistenza umana sul livello ordinario di vita": se è (e si mantiene), in questo senso, "irreale" (Ibid., p. 191), non assoggettata all’imperativo del ciclo di produzione e consumo. Solo in questi termini "la funzione estetica può avere una parte determinante nel dare alla civiltà una nuova forma" (Ibid.).

Se all’epoca di Schiller questa necessità appariva ovvia (come dimostrerebbe, secondo Marcuse, l’elaborazione pressoché identica del concetto di alienazione in Herder, Schiller, Hegel e Novalis), "[m]an mano che la società industriale comincia a formarsi sotto il dominio del principio di prestazione, la sua inerente negatività permea l’analisi filosofica" (Ibid.) e il reale si scinde nelle opposizioni inconciliabili (o difficilmente armonizzabili) che contornano un’esistenza costretta a porre come prioritarie le forme di soggettività definite in funzione, e all’interno, dell’occupazione economica.

All’alienazione di queste soggettività – potremmo aggiungere – occorreva una dimensione in cui la soddisfazione del desiderio (o di quello che Freud chiama l’"impulso sessuale") avvenisse a un livello semplicemente an-estetico, a un livello in cui il principio del piacere non mettesse in discussione il principio di realtà che sovrintende alla civiltà industriale, nella quale il piacere è ormai incardinato all’interno del principio di prestazione e, come tale, assunto (in termini di valore e, insieme, di metodo) dalla produzione culturale di massa.

Invece, afferma Marcuse, "[l]’arte rappresenta una sfida al principio della realtà corrente: rappresentando l’ordine della sensualità, essa invoca una logica repressa – la logica della soddisfazione contro quella della repressione. Dietro alla forma estetica sublimata si annuncia il contenuto non sublimato: la dipendenza dell’arte dal principio del piacere" (Ibid., p. 190). Al di là dei valori correnti, l’arte farebbe bene a ricordarlo.