Marcuse e la critica della tolleranza
Stefano Righetti

28.05.2021

Il 1965 è la data di pubblicazione di un saggio di Marcuse oggi quasi dimenticato, tranne che in qualche richiamo approssimativo (nell’argomentazione come nel merito) a proposito del politically correct. Ma anche riguardo a questo sarebbe bene fare alcune precisazioni. Il saggio si intitola La tolleranza repressiva e chiude un breve libro composto da tre testi a firma, rispettivamente, di Robert Paul Wolff, Barrington Moore jr e (appunto) Herbert Marcuse. Il libro (ma sarebbe meglio dire il pamphlet) si intitolava Critica della tolleranza. E il sottotitolo ne forniva un’immediata spiegazione: "La forma attuale della tolleranza: un mascheramento della repressione".

Poiché oggi ci troviamo in Italia, come in molti altri paesi del sotto-sviluppo culturale, a discutere se riconoscere o meno i diritti delle minoranze (in qualunque paese non così arretrato la questione non potrebbe porsi; in altri molto più arretrati la questione non si pone ma per il motivo opposto) questo testo può forse fornire alcune indicazioni non scontate e, soprattutto, libere da quel pantano un po’ ipocrita (e spesso becero) che è diventato il confronto sul politically correct.

Va detto che l’obiettivo di questo libro era in realtà più ampio e radicale: riguardava il sistema sociale entro cui si definisce la dialettica tra tolleranza e intolleranza, in quella che era ormai la società contemporanea dei consumi, e in cui ogni differenza doveva perdere necessariamente la propria alterità per stemperarsi o armonizzarsi in una convivenza priva di conflitto – dove la differenza, potremmo dire, doveva diventare indifferente. Ottenere la sua normalizzazione e, di conseguenza, il suo accomodarsi tra le forme costituite di quella che è divenuta nel frattempo la nuova parola d’ordine del neo-capitalismo: il "pluralismo" che sovrintende al buon funzionamento degli affari.

La questione al centro di questo libro riguarda dunque molto meno gli stili di vita (che è pur necessario difendere dall’odio) e molto più la critica al sistema economico e sociale: il cedimento delle democrazie di fronte all’economia dei consumi, della quale si dimenticano gli abusi – che per Marcuse sono abusi sociali, rispetto ai diritti fondamentali degli individui, che abusi verso la natura e l’ecosistema.

Ma la critica della tolleranza al centro di questo testo non riguarda soltanto la necessità di mantenere il confronto politico tra schieramenti avversari all’interno di una medesima cornice di valori, e dunque di conformismo. Perché in questo caso la differenza si ricostituirebbe comunque altrove. Per funzionare, il principio del conformismo dev’essere posto necessariamente a fondamento dell’intera società, così da eliminare le posizioni che chiamiamo comunemente "radicali" e che faticano (per loro stessa definizione) a armonizzarsi con un insieme di proposte che, invece di mettere in discussione i valori dati e gli assetti sociali vigenti, costringono gli elettori a scegliere tra sfumature diverse di una medesima "visione del mondo", trasferendo l’interesse e il conflitto, più che sulle idee, sulla personalità dei candidati.

Nel suo testo, Wolff descrive benissimo come il conformismo si sia imposto nella stessa sinistra in termini politici: "La teoria e la pratica del pluralismo pervennero a dominare la politica americana la prima volta durante la depressione, quando il partito democratico raccolse una maggioranza elettorale mettendo insieme gruppi minoritari. Non meraviglia che lo stesso periodo vedesse la morte di un movimento socialista attivo" (R. P. Wolff, Al di là della tolleranza; in Critica della tolleranza, Einaudi 1968, p. 51). Nella posizione socialista di Wolff, il coinvolgimento delle minoranze in una proposta plurale (e dunque media) avrebbe determinato come conseguenza l’impossibilità di formalizzare come proposta politica un "bene generale della società" che non fosse semplicemente "la somma degli interessi privati" (Ibid., p. 50). Trent’anni dopo l’analisi di Wolff la sinistra italiana avrebbe curiosamente battuto la stessa strada vendendola come novità! Ma al di là del richiamo al socialismo fatto dal Wolff (cosa del tutto fuori moda, soprattutto per i media italiani), i termini in cui Marcuse affronta la questione sono in realtà diversi da quelli di Wolff.

Perché non si consideri la questione posta da quel libro una mera curiosità del passato, frutto dell’interesse di tre professori un po’ esaltati dal clima degli anni 60, vale la pena ricordare intanto che circa dodici anni dopo, nel suo articolo per le Monde in cui scriverà di Pasolini, Foucault evocherà a sua volta il pericolo di un "mattino grigio della tolleranza", in cui la differenza dovrebbe adattarsi annullandosi in una inerme convivenza. Senza che nei confronti dei valori stabiliti sia più consentito rivendicare anche un altro (possibile) modo di essere.

E ai nostri giorni? Ai nostri giorni dobbiamo registrare l’ambiguità che sembra avvolgere sulla stampa questo tipo di pensiero. Se è vero che la tolleranza toglie legittimità ai discorsi che non rientrano nei limiti di ciò che è accettato come tollerabile, nondimeno è proprio tra i discorsi che si pongono oggi come "non allineati" che occorre fare chiarezza, distinguendo tra questi l’intolleranza che non è più possibile tollerare. E su questo aspetto, il testo di Marcuse (che potrebbe sembrare confinato a prima vista a una stagione di estremismi ormai lontani) ha certamente qualcosa da dirci.

Intanto, "il contrasto" che dovremmo avere chiaro quando parliamo di tolleranza, mette in guardia Marcuse, "non è tra la democrazia in astratto e la dittatura in astratto" (Ibid., p. 92). Il contrasto che occorre avere presente è quello che riguarda il modo di intendere e di praticare la libertà. Perché definita in funzione di una tolleranza che sembra stabilire verità e modi di essere in modo imparziale, la libertà potrebbe trovarsi paradossalmente in una condizione di non-libertà. Ponendosi come un limite alla libertà, la tolleranza potrebbe infatti impedire quell’aperta messa in discussione delle condizioni che implicano invece, sostiene Marcuse, vere e proprie forme di esclusione (il termine usato qui da Marcuse è "repressione", ma più che il tono è il senso generale del suo discorso che ci interessa riprendere). Tradotto: la tolleranza può facilmente finire per tollerare "tutte le attività del normale sfruttamento, dalla povertà, dall’insicurezza, alle vittime della guerra [...] in cui la società è impegnata" (Ibid., p. 93). Se pensiamo alle forme di sfruttamento presenti all’interno del nostro pluralismo tollerante il pensiero di Marcuse appare perciò del tutto attuale.

Ma a distanza di trentaquattro anni dalla pubblicazione di quel testo dobbiamo prendere atto che il discorso contro la tolleranza è oggi portato avanti da destra in modo perfino spregiudicato. L’affermazione secondo cui la "teoria del gender" sarebbe imposta come un pensiero unico in nome della tolleranza e del pluralismo, è soltanto uno dei possibili esempi a questo riguardo, insieme al rifiuto di una legge contro le discriminazioni, rivendicato anche questo in nome della "libertà di opinione".

Ed è contro questo tipo di ambiguità che Marcuse contesta al pluralismo della tolleranza di non distinguere chiaramente tra i valori in gioco. La critica alla tolleranza riguarda, per Marcuse, non tanto l’espressione di un’opinione contraria, ma la pretesa libertà di "bloccare", in nome del pluralismo delle idee, espressioni culturali, politiche e sociali che potrebbero invece svilupparsi, in senso progressista, grazie a un ampio consenso a livello sociale.

Marcuse partiva dall’idea che la società civile di quel 1965 fosse in grado di esprimere un rinnovamento molto più avanzato, rispetto alla libertà a cui il neo-capitalismo consentiva di aspirare. Oggi dobbiamo confrontarci più spesso con la condizione contraria: movimenti politici che prendono corpo nella società civile su base reazionaria, e che rivendicano il diritto di esprimere le loro posizioni grazie alle libertà democratiche di cui si dichiarano apertamente nemici. Se vogliamo (com’è necessario) salvaguardare la libertà, è dunque necessario sorvegliare in modo più attento i discorsi. Non tanto rispetto all’esercizio della libertà, a cui tutti i discorsi si appellano, ma al grado di libertà che la loro attuazione permetterebbe di conseguire sul piano sociale, culturale e politico. Il che esclude, rispetto al valore della libertà, qualsiasi relativismo.

Del resto "da chi", si chiede Marcuse, "e secondo quali standard, può esser fatta la distinzione tra vero e falso, progressivo e regressivo" se i discorsi vengono messi su un piano di equivalenza (e dunque depotenziati nella loro alternativa anche radicale) dal principio di tolleranza? La risposta di Marcuse non mostra alcuna ambiguità: "è possibile definire la direzione verso cui le istituzioni prevalenti, le politiche, le opinioni dovrebbero esser cambiate al fine di migliorare le probabilità di una pace che non sia identica alla guerra fredda e alla piccola guerra calda, e di una soddisfazione dei bisogni che non si nutra della povertà, dell’oppressione e dello sfruttamento. Di conseguenza è anche possibile identificare quelle politiche, opinioni, movimenti che promuoverebbero questo cambio e quelle che farebbero il contrario. La soppressione del regresso è un preliminare per il rafforzamento del progresso" (Ibid., p. 97). Dove il "progresso" è sempre per Marcuse il raggiungimento di un più alto grado di "liberazione".

Nulla a che vedere con l’equivalenza grigia della tolleranza né, tantomeno, con la negazione dei diritti spacciata per ribellione alla cultura dominante. La cultura dominante, ci insegna Marcuse, possiamo infatti riconoscerla a colpo sicuro: è quella che propone la regressione e la negazione delle nostre aspirazioni, travestita magari da pensiero non-allineato o da anti-conformismo.