Ma è davvero tornata la storia?
Stefano Righetti

15.05.2021

Che la storia sia ricomparsa oggi come un problema (e un tema) in parte dimenticato, come ci spiega benissimo Manlio Iofrida nei suoi interventi, è un fatto incontrovertibile. Dal 1989 le vicende di un mondo che sembrava sospeso in statico equilibrio hanno cominciato a svolgersi in modo meno prevedibile e definito. E gli eventi che ne sono derivati hanno posto inevitabilmente anche una nuova domanda di senso. Che non è la spiegazione del loro motivo immediato (il fatto per cui, come ci spiega il giornalismo, due stati che litigano finiscono per spararsi e una serie di servizi televisivi ci mostreranno allora "tutto l’orrore della guerra" con i suoi cumuli di macerie e di sangue), ma è la domanda sul significato di questi fatti al di là del loro accadere immediato, che rimane per lo più da decifrare e comprendere, e che riguarderebbe appunto la Storia.

La differenza dal mondo apparentemente sospeso e stabile di ieri e il mondo instabile, attraversato da avvenimenti tanto inattesi quanto difficili da ricomporre in un quadro unitario (almeno con i riferimenti culturali e politici di qualche decennio fa), è il fatto che gli eventi odierni ci appaiono senza un significato ultimo (la storia come metafisica) o senza un piano di comprensione che ne indichi la ragione e lo sviluppo in termini intellegibili (la storia dell’Illuminismo o quella del materialismo dialettico). Era appunto l’elaborazione e la ricerca di questo significato a reclamare il difficile compito di passare, dalla semplice registrazione degli avvenimenti, all’interpretazione loro significato in una "filosofia della storia", senza la quale la storia è destinata a ritornare (o rimanere) per lo più nella cronaca.

Ma come svolgere oggi questo compito? Con quali strumenti? O, meglio, attraverso quale forma interpretativa? È qui che la frase di Nietzsche tanto cara alle illusioni postmoderne, per le quali la storia andava definitivamente tradotta nel relativismo delle interpretazioni, rivela al contrario la sua estrema attualità e, insieme, un significato meno banale. L’affermazione nietzschiana per cui "non ci sono fatti ma solo interpretazioni", più che soffermarsi sugli accadimenti sembra indicare alla disciplina della storia la responsabilità del proprio compito, e mette in guardia circa il fatto che gli strumenti che essa utilizzerà per dare un senso agli eventi di cui si occupa sono strumenti a loro volta emendabili, dunque imperfetti. Di più, sono strumenti interessati, così come interessata sarà necessariamente la sua metafisica.

Venuta quindi meno ogni ricerca di significato, se non unitario almeno complessivo della storia, al di là dei fatti spettacolari e inaspettati di oggi, il rischio di questo compito interpretativo ormai fuori-moda rimane necessariamente assente. Parlare di "ritorno della storia", come si legge in qualche articolo sulla stampa, pare dunque fuorviante. È vero, al contrario, che di fronte al susseguirsi di avvenimenti dal forte impatto e dalle conseguenze spesso significative, a mancare sembra essere proprio il tentativo di una lettura in grado di dare ai fatti la prospettiva di una (tra le possibili, a voler restare ecumenici) interpretazioni.

Abolite quelle che Lyotard chiamava "le grandi narrazioni", nelle quali si articolava il discorso della storia e gli eventi umani assumevano il senso arbitraio ma coerente di un destino intellegibile, gli eventi mantengono oggi, rispetto al loro possibile significato, un’ambigua superficialità. Più che tornata, la storia rimane dunque assente e lontana. E la sua assenza è forse l’unico significato storico che oggi ci riguarda e con cui possiamo misurarci. Sconfessata a priori nella sua validità e capacità, la storia è stata esclusa dal rischio di un’interpretazione in cui apparisse anche il senso (pericoloso da pronunciare prima che da proporre) di un "destino" della storia stessa. Essere senza storia non vuol dire perciò essere senza avvenimenti o fatti di rilievo, vuol dire semplicemente non avere più per questi alcun significato o interpretazione che non sia limitato a sua volta al movente immediato del loro accadere.

L’investigazione delle cause prossime ha sostituito la ricerca dell’orizzonte di senso in cui i fatti potessero trovare una prospettiva e aprire a nuove visioni di senso. Il giallo ha sostituito il romanzo d’avventura come la cronaca ha sostituito la storia. Del resto, l’epoca precedente alla filosofia della storia doveva paradossalmente credere nei fatti molto di più dell’epoca in cui la loro interpretazione ha dato luogo a visioni divergenti e in conflitto fra loro. La nostra condizione non è perciò nuova. Ma è indubbio che aver perduto l’azzardo interpretativo della storia ci rende ostaggio di un pericoloso conformismo.

Là dove le interpretazioni mettevano in prospettiva l’imperio assoluto dei fatti (dando loro, era il senso, anche la possibilità di essere affrontati rispetto alle loro cause sociali e politiche, rispetto alla loro origine essenziale), la perdita delle interpretazioni che non si limitano alla cronaca ha ridato ai fatti il potere di smarrirci nell’immediato del loro accadere; di accontentarci delle motivazioni prossime e parziali, dell’intreccio narrativo più semplice e automatico e, soprattutto, di accontentarci della curiosità che quell’intreccio minuto fa nascere in noi. Siamo tornati inconsapevolmente "cronachisti".

Incapaci di ordinare i fatti in una visione di senso, non possiamo che rimanere in balia di essi e della loro spettacolarizzazione giornalistica. Ma se la Storia manca, possiamo dire, è proprio perché gli eventi che ci hanno spinto al di là del postmoderno hanno lasciato i nostri strumenti interpretativi e culturali (e perfino il nostro atteggiamento: le sue certezze e le sue pigrizie acquisite) ancora fermi al periodo in cui la fine della storia ci appariva in realtà come una necessaria liberazione.

Parlare perciò di un ritorno della storia, come alcuni stanno facendo, senza chiarire perché la storia è stata a un certo punto (della nostra storia) ripudiata, può voler dire soltanto due cose: o che si dà per scontato che il postmoderno sia stata una banale deviazione da una concezione della storia che può tornare a riproporsi come lettura "autorizzata", una volta che gli eventi sembrano adattarsi nuovamente a un certo piano narrativo (ma qui andrebbe allora definito il perché di quella deviazione e della sua inversione); oppure che si stanno confondendo i piani e i riferimenti e si dà allora il nome di storia all’avvenimento (storico) in sé, prescindendo definitavamente da ogni filosofia (cioè interpretazione) della storia.

Dobbiamo allora ammettere che la narrazione postmoderna (quella che ha decretato la fine della storia) rimane ancora (ci piaccia o meno) l’ultima filosofia della storia. La storia che si ritira lasciandoci in balia degli avvenimenti, o che semplicemente scompare affinché il non-senso diventi anche l’unico senso davvero abitabile e confortevole. Ed è quello che è avvenuto, in un momento in cui capire dove stavamo andando (e se ne valeva davvero la pena oppure no) ci sembrava una limitazione non più tollerabile alla nostra libertà. E a quel punto, anche il problema di come stabilirlo, cioè in base a quali variabili e interessi in gioco, ci sembrava a sua volta superfluo. Gli interessi che avrebbero deciso per noi erano già evidenti e la filosofia della storia non più necessaria. E ora?