L'uso disinvolto del termine biopolitica
Stefano Righetti
07.08.2021

L’aver messo in crisi il concetto di "sistema" o credere ciecamente, all’opposto, nella sua positivistica definizione, rischia di mancare un’interpretazione più consapevole anche dell’inevitabile rapporto tra politica e pandemia. Soprattutto, non sembra far uscire il dibattito da astratte rivendicazioni "anti-securitarie" – a metà tra la fede cieca nella propria identitaria convinzione e il catechismo di popolo.

Per quanto non passi ora che un articolo non ne citi il concetto andrebbe finalmente ricordato che la "biopolitica" foucaultiana non ha nulla a che vedere con la logica binaria che guida l’attuale discussione, dividendo gli argomenti tra chi ha paura del contagio e chi sostiene che la morte di tanti non deve far venir meno il principio di libertà, in quello che appare improvvisamente come il migliore dei mondi possibili.

Primo perché qualunque decisione di fronte alla pandemia (compresa il non prenderne nessuna) sarebbe di per sé un’azione biopolitica; e secondo perché il nocciolo di quel concetto, se non lo vogliamo destinare alla confusione teorica dominante, è forse un altro. Ma poiché esso apre scenari meno rassicuranti della fede in questa o quella opinione filosofica non lo si tende (direi quasi mai) a considerare.

Tuttavia, ciò che la biopolitica pone in qualche modo come presupposto, al di sotto (e ben prima) della questione di governo, è la necessità da cui quest’ultima deriva: o, meglio, il fatto che politica, ambiente e società sono considerate nella biopolitica come un insieme inscindibile, dove la prima cerca di mantenere l’ultima in un equilibrio favorevole con l’ambiente e con gli elementi "naturali" – per nulla semplice e scontato.

Venendo all’oggi, il punto che interessa è che questo equilibrio non serve solo a garantire il contenimento dell’epidemia a livello sociale (questione che sarebbe in fondo trascurabile per chi crede – com’è stato – nella cosiddetta "immunità di gregge"), ma a garantire la forma stessa che la società ha assunto e, in definitiva, quello che chiamiamo il suo assetto di potere. La biopolitica è dunque sempre una difesa della società e, insieme, del rapporto che questa ha stabilito con gli elementi naturali non-umani.

Ma la conseguenza più evidente che la pandemia ha determinato è stata quella di mettere in discussione proprio l’assetto del sistema, come questo si è strutturato dalla rivoluzione industriale a oggi. E con ciò anche la convinzione che il sistema possa mantenere la medesima condizione di sfruttamento e dominio generalizzati da parte della produzione sociale e economica. Ciò a cui stiamo andando incontro (e che la pandemia forse annuncia soltanto) è dunque una condizione di incertezza nuova e assoluta, nella quale l’attuale sistema economico-sociale-ambientale sembra cedere, il suo equilibrio venire meno, e il rapporto di forza che sembrava garantirne fin qui l’insieme non è più in grado di mantenerne l’assetto; anzi, quel rapporto di forza è proprio il motivo del suo collasso.

La crisi pandemica e quella ecologica sono pertanto destinate a diventare, in questo senso, crisi politiche in senso stretto. E, assunta in questi termini, la biopolitica non è allora che il tentativo (necessario) di governare gli scenari che in tale condizione si aprono.

Letto in questi termini, l’attuale confronto (sul green pass, sul vaccino, sulla ripresa della scuola in presenza, ecc.) non solo rientra esso stesso all’interno di un agire biopolitico; ma così come questo confronto si svolge non rappresenta altro (nelle sue diverse opinioni) che la preoccupazione di mantenere il sistema al riparo da una crisi radicale. Crisi che, se la pandemia dovesse proseguire a lungo, rischierebbe di mettere in discussione i valori (più o meno) liberali che hanno fin qui garantito l’assetto del sistema (almeno in quella parte più avanzata del mondo che chiamiamo Occidente). La discussione attuale, nelle sue diverse argomentazioni, non esprime quindi altro che la medesima aspirazione a veder salvaguardato l’attuale modello sociale e produttivo dal pericolo di un suo cedimento. Di conseguenza, anche le diverse contrapposizioni all’interno di questo dibattito finiscono per essere per lo più apparenti e, in quanto tali, fuorvianti.

Ciò che pandemia e i cambiamenti climatici stanno invece dimostrando è l’assoluta incompatibilità dell’attuale organizzazione economica sociale con l’elemento (chiamiamolo così) naturale del sistema. E, ancora meno, con una soluzione realmente positiva del problema che la crisi pone a livello generale.

La biopolitica è dunque più che mai di fronte a una scelta: cercare di mantenere il rapporto di forza vigente tra economia, società e natura, al fine di salvaguardare l’attuale assetto economico e politico che governa il pianeta, accettando però il rischio che la crisi ambientale si trasformi in una crisi sociale sempre più grave e difficile da governare; oppure, accettare la sfida di farsi ricerca (il più possibile condivisa) di un nuovo equilibrio tra società, libertà e natura.

Ma in questo senso, il semplice rifiuto del green pass non può che apparire il tentativo di difendere qualcosa che è stato forse soprattutto un’illusione della libertà, o la libertà nell’unica forma consentita (e necessaria) allo sviluppo del capitale. Marcuse avrebbe certamente su questo qualcosa da obiettare agli attuali difensori filosofici della "libertà".

Soprattutto, ai difensori di una "libertà" che l’ambiente e la natura (diciamo pure gli elementi materiali) mettono oggi così in discussione, mostrandoci una volta per tutte gli effetti della sua traduzione economica, molto più reali e concreti della sua idealizzazione di principio. A meno che la parola libertà non implichi finalmente una liberazione dalla sudditanza al principio economico dell’intero pianeta, e dunque una biopolitica del tutto opposta a quella attuale.