Luca Maria Patella. Fotografia come esperienza
Pasquale Fameli
Luca Maria Patella, Occhio nel paesaggio, 1965 © Luca Maria Patella, courtesy Archivio Patella, Roma

11.09.2021

Nel clima di “smaterializzazione dell’oggetto artistico” proprio dei primi anni Settanta, Luca Maria Patella (1934) ha impiegato il mezzo fotografico per sondare interstizi inesplorati, livelli di realtà che, con Marcel Duchamp, suo nume tutelare, potremmo definire “infrasottili”: passaggi e mutamenti quasi impercettibili, avvertibili solo tramite i processi del pensiero.

Benché centrale, il mezzo fotografico non è l’unico impiegato dall’artista: Patella opera con diversi mezzi (scrittura, film, performance, libro, collage, ready-made) e spesso li fa convergere, per aumentare la carica concettuale delle sue operazioni. Molte di esse, infatti, sembrano funzionare segretamente come circuiti elettrici, i cui componenti possono essere collegati “in parallelo”, così che la tensione elettrica si distribuisca equamente tra essi, oppure “in serie”, stabilendo un unico percorso per l’energia che li attraversa.

D’altra parte, simili processi non sono estranei all’artista, laureatosi in Chimica elettronica strutturale a Montevideo, in Uruguay, e quindi avvezzo a sondare i livelli più sottili e impalpabili della realtà. Proprio questa sua formazione, unitamente a interessi psicoanalitici coltivati in privato, ha avvantaggiato Patella nel precoce approdo a un’arte immateriale, genuinamente concettuale, incentrata sull’esplorazione delle nostre facoltà estetiche e noetiche.

Le sue prime prove in tale direzione risalgono già al 1964, anno in cui la Pop Art consolida il proprio dominio alla Biennale di Venezia, segnando tuttavia il suo culmine e perciò l’avvio verso una fase calante. Dopo un’iniziale ricerca incisoria, svolta nel segno di Hayter e coerentemente connessa alle sue conoscenze chimiche, Patella si preoccupa di esaminare le logiche della rappresentazione attraverso la fotografia, un mezzo ambivalente, capace sia di illudere sia di rivelare, sia di immaginare sia di verificare.

Questa impresa si basa tuttavia su un’iniziale predilezione per immagini interstiziali giocate sulla sfocatura, sul riflesso, sulla trasparenza, sulla sovrapposizione e sul mosso: fattori solitamente ritenuti disturbanti concepiti dall’artista come oggettivazioni di slittamenti pulsionali.

La “smaterializzazione” dei primi anni Settanta è in qualche modo anticipata dalla proposta, lanciata da Patella nel 1967, di un’arte “senza peso” sia nelle sue fattezze sia nei suoi presupposti: un dichiarato alleggerimento non solo dal punto di vista materiale, ma anche da quello morale, con il rifiuto di ogni pregressa convenzione retorica. Il contatto diretto con la realtà fisica favorito dalla ripresa fotografica porta l’artista a un radicale ripensamento dei codici interpretativi che permettono di assegnare un posto a ogni cosa: la sua ricerca non ricade mai nella tautologia ma, in virtù della sua componente psicoanalitica, sonda i territori dell’inconscio e rompe le catene dei significati per sortire effetti ironici o immaginifici.

Un tratto altro distintivo della ricerca fotografica di Patella sta nell’impiego ricorrente del fisheye: grazie alla sua capacità deformante, questo obiettivo grandangolare permette all’artista di trasfigurare la realtà eludendo la deissi tautologica del Concettuale più analitico. D’altra parte, tutto il percorso creativo di Patella è costellato di morfologie curvilinee, sferiche e spiraliche declinate nelle istanze della lente, dell’arancia, della cupola stellare, della meridiana o della conchiglia, che si costituiscono come paradigmi “trovati” di una totalità mobile e mutevole.

Tra questi rientra anche lo stesso fisheye, per la sua capacità di allargare il campo del visibile e ridefinire ogni rapporto tra interno ed esterno come tra centro e margine. Ne è un esempio emblematico Occhio nel paesaggio (1965) in cui il paesaggio osservato e l’occhio dell’osservatore si compenetrano generando una visione vagamente surrealista, mossa però dall’esigenza di far coincidere la veduta con l’atto stesso del vedere: ne risulta un’immagine “a circuito chiuso” che annulla ogni distanza contemplativa.

Da Proserpina o Euridice (1966) emerge invece la possibilità di operare uno slittamento semantico mediante il linguaggio: l’immagine mostra semplicemente le ombre portate di due individui che si rincorrono lungo una strada di campagna, ma il richiamo alle due figure mitologiche nel titolo rievoca nella nostra mente ricorrenze iconografiche che trasfigurano la scena portandola sul piano della mitopoiesi.

In accordo con Roland Barthes, Patella comprende sostanzialmente che, in virtù della sua congenita relazione fisica con la realtà, la fotografia è un “messaggio senza codice” e che perciò può essere riorientata facilmente verso gradi di significazione ulteriori e imprevisti.

Vale la pena di ricordare, a questo proposito, quanto nota Walter Benjamin in conclusione alla sua Piccola storia della fotografia: diventando sempre più maneggevole e portatile, la macchina fotografica si presta ad afferrare visioni «fuggevoli e segrete», capaci di attivare nel fruitore il meccanismo dell’associazione; a questo punto deve intervenire la didascalia, senza la quale l’immagine resterebbe difficile da comprendere. Evidentemente, Patella tiene conto di tale esigenza, ma la soddisfa in modi volutamente paradossali, proponendo una didascalia che non chiarisce ma, al contrario, complica e confonde le informazioni intorno alla situazione illustrata.

Anche quando sembra avvicinarsi alla tautologia, Patella non cede mai alla strenuità di una logica circolare: in Rosa dice A (1966), per esempio, l’atto descritto nel titolo dell’immagine è compiuto per associazioni di indici e simboli, la donna con la bocca aperta e la lettera “A” posta accanto, costituendo così un circuito di interferenze semiotiche. Lo stesso accade in Biglietto d’autobus ecc. ecc. (1966), dove una freccia segnaletica indica non l’oggetto in sé ma il suo corrispettivo linguistico.

Con il Mare firmato (1965), invece, l’artista esercita un doppio principio di appropriazione: grazie alla ripresa fotografica preleva una limitata porzione di mare, intesa come sineddoche di una totalità quasi incommensurabile, perpetuando, attraverso la firma, un’operazione concettuale di matrice manzoniana. Contribuisce poi ad amplificare tale effetto l’audace impiego del colore, radicalmente proscritto sul versante del concettualismo più rigoroso, dove si operava nella massima austerità.

Ma lo sviluppo delle soluzioni artistiche nei decenni successivi avrebbe confermato i limiti di quell’atteggiamento e la necessità di una fruttuosa convergenza tra i valori concettuali e quelli formali, come già Patella aveva brillantemente intuito. Le sue intuizioni però non si limitano esclusivamente al campo dell’arte, toccando anche la sfera delle pratiche sociali: con alcune Auto-foto Camminanti e viaggia’nti (1976), infatti, Patella sembra anticipare una pratica oggi diffusissima, quella del selfie.

In questi autoscatti l’artista si ritrae mentre compie azioni tra le più ordinarie come per esempio guidare un’auto oppure leggere un libro alla finestra, utilizzando una fotocamera dotata di un grandangolo che permetta di includere più dettagli possibili. Queste azioni sono come delle piccole performance sottratte all’ordinarietà delle proprie giornate e svolte nel segno della verifica o dell’analisi comportamentale, tema centrale nell’arte dei primissimi anni Settanta.

Il selfie si distingue dall’autoritratto fotografico per via della sua pertinenza al contesto dei social e per la totale assenza di un’intenzione artistica. Al fondo dell’impresa di Patella c’è ovviamente un’intenzione artistica che, unitamente allo scarto cronologico e tecnologico, impedisce di identificare quelle immagini con il selfie in senso stretto; ma la presenza di talune prerogative sintattiche – il carattere vernacolare dell’immagine, la noncuranza formale della ripresa e la visibilità del braccio che regge la fotocamera – permette di riconoscerle come sue indirette antesignane.

Proprio in questa inattesa discendenza si può trovare un’ulteriore conferma della natura sociale, relazionale, delle soluzioni di Patella, sempre volte a stabilire con lo spettatore una comunicazione quanto mai aperta e impregiudicata che perpetui nello spazio dell’arte la complessità multiforme dell’esperienza comune.