Lo storico, il moralista e l'immaginazione: il caso Luzzatto
Vincenzo Scalia

31.12.2023

A distanza di quarant’anni, le vicende della lotta armata in Italia, continuano ancora a costituire un ostacolo insormontabile per chi vuole ragionarne lucidamente. I reduci da quella esperienza oscillano tra la rivendicazione acritica della loro purezza rivoluzionaria e il rinnego assoluto. Molti osservatori esterni, anche quelli che dovrebbero utilizzare il criterio dell’avalutatività scientifica per svolgere un’analisi accurata, continuano a sentirsi debitori della retorica dominante, ovvero quella dello Stato contro il terrorismo, versione imbellettata della dicotomia, più spiccia, dei buoni contro i cattivi. Ne consegue che i protagonisti della lotta armata vengono dipinti come dei criminali assoluti, o persone prive di volontà e di raziocinio, manovrate da forze oscure o dai cattivi maestri. Un’analisi che è lungi dal fare giustizia delle dinamiche sociali e politiche in gioco, e che penalizza la comprensione dei fatti, oltre che, in alcuni casi, a mancare del tutto il bersaglio analitico.

Il recente libro di Sergio Luzzatto, Dolore e Furore. Una storia delle Brigate Rosse (pp.703, Einaudi, Torino, 2023), incentrato sulla vita del brigatista Riccardo Dura, rientra senza dubbio in questa tipologia di lavori. Innanzitutto, perché dà per scontata la tesi dei cattivi maestri e degli opposti estremismi. Si tratta di un punto di partenza malfermo, perché ignora il fatto che, come le inchieste giudiziarie hanno dimostrato in più occasioni, il coinvolgimento, diretto e diretto degli apparati dello Stato nelle stragi, al fianco degli estremisti di destra, i plurimi tentativi di golpe (Piano Solo, Borghese, Rosa dei Venti) è un dato di fatto. Quindi, se esistevano degli estremismi, non c’erano solo a sinistra e a destra, ma anche al centro.

In secondo luogo, l’autore sembra dare per scontato che in Italia esistesse uno Stato democratico consolidato, che le organizzazioni armate, in particolare quelle di sinistra, avrebbero messo a repentaglio sulla scia degli insegnamenti dei cattivi maestri, come Fenzi e Faina. Un’impostazione che tralascia la polarizzazione sociale estrema dell’Italia di quegli anni, oltre a dimenticare come gli apparati dello Stato (polizia, esercito, magistratura, scuola), pullulassero di personale assunto e formatosi sotto il passato regime, e operante sotto un apparato legislativo e organizzativo risalente alla stessa epoca. Un contesto che vedeva le donne subalterne sotto il diritto di famiglia che puniva l’adulterio, per esempio. E che usava le istituzioni totali contro ogni manifestazione di eccentricità, come l’omosessualità. L’autore però sembra nutrire pochi dubbi in merito.

In terzo luogo, a partire dalle certezze summenzionate, Luzzatto si lancia in una vera e propria demonizzazione delle lotte de-istituzionalizzanti, della criminologia critica, della pedagogia alternativa, del cattolicesimo del dissenso. Lo spunto lo prende dalla vicenda personale di Riccardo Dura. Emigrato da bambino dalla Sicilia coi genitori, vive traumaticamente la separazione di padre e madre. Quest’ultima lo invia in manicomio per ben due volte dopo conflitti violenti intercorsi tra lei e il figlio. Poi lo invia anche nella nave-riformatorio “Garaventa”, dove operano psicologi e psichiatri di impronta positivista. Nel frattempo, attorno a Basaglia, gravitano una psichiatria e una pedagogia alternative, che si sono nutrite di Goffman, di Foucault, di Paulo Freire. La colpa di queste branche del pensiero critico, secondo l’autore, sarebbe quella di avere messo in discussione la centralità e la necessità delle istituzioni statuali, allentando le cinghie e consentendo così il proliferare di gruppi estremisti infarciti di disadattati come Dura. I cattivi maestri erano lì a reclutarli, riempiendoli di mantra rivoluzionari.

In particolare, un cattivo maestro, sarebbe stato Giovanni Senzani. Non vogliamo sindacare le responsabilità penali di quest’ultimo, pienamente acclarate, bensì evidenziare una grave lacuna da parte di Luzzatto. L’autore, dal momento che Senzani faceva il criminologo, e svolse ricerche sulle carceri minorili, utilizza una velina dei servizi segreti tedeschi che informavano i colleghi italiani di un convegno di “criminologi radicali” a Firenze in cui avrebbero voluto stringere rapporti coi gruppi terroristici (p.223). Un passaggio che denota la totale ignoranza da parte dell’autore della disciplina in oggetto. In primo luogo, non sono mai esistiti i criminologi radicali, ma, semmai, quelli critici. Alessandro Baratta, Dario Melossi, Massimo Pavarini, Tamar Pitch, sono nomi di rilevanza mondiale, tuttora letti e discussi con attenzione dagli specialisti del settore. In secondo luogo, lo European Group on Deviance and Social control, a cui Luzzatto fa riferimento, è ancora oggi attivo come luogo di confronto intellettuale internazionale.

In quarto luogo, l’autore, si permette di immaginare un incontro avvenuto a Bologna tra Senzani da una parte e Melossi e Pavarini dall’altra. Gli sarebbe bastato andare a leggere Sicurezza e Territorio o Dei Delitti e delle Pene per capire che tra i tre non è mai intercorso nessun rapporto, e che la criminologia critica, con le BR, non ha mai avuto niente a che fare. Ha criticato le istituzioni totali come strumento di dominio attraverso la violenza e la prevaricazione, ma ha sempre osteggiato la lotta armata. In particolare, dal momento che la criminologia critica si batte per il garantismo penale, ha sempre osteggiato le BR e la loro presunzione di assurgere a Tribunale del Popolo. Luzzatto evita di approfondire tutto questo, e dà per scontato. Come spesso dice nel suo libro, immagina. Nel caso della vita di Riccardo Dura, di cui rimane poca documentazione, immaginare può essere consentito. Anche se fino a un certo punto. Ma quando si hanno documenti a disposizione, invece di immaginare, bisogna leggere, analizzare, capire. Anche se, come sembra trasalire dal libro, l’autore è convinto che i riformatori, i manicomi e le carceri speciali siano strumenti di democrazia.