Lo scarto selvaggio. Per Jimmie Durham
Pasquale Fameli
Jimmie Durham, Still life with Stone and Car, 2004 © Bundit Minramun

26.11.2021

Uno dei più fortunati neologismi degli ultimi quarant’anni, “glocalizzazione”, è entrato a buon diritto nel lessico della critica d’arte. Tale termine si è imposto nel dibattito sociologico contemporaneo grazie alle elaborazioni teoriche di Roland Robertson e di Zygmunt Bauman in riferimento a un possibile (necessario) rapporto di adeguamento dei processi della globalizzazione alle realtà locali.

A differenza di quanto si creda, la glocalizzazione non predilige il locale sul globale, ma osserva le dinamiche di negoziazione tra le due dimensioni, ritenendo che il globale possa favorire un’accelerazione delle realtà locali e che, al tempo stesso, il ruolo dell’individuo e delle piccole comunità possano trovare occasioni di valorizzazione all’interno del sistema globale.

In campo artistico la glocalizzazione può assumere varie forme, ma in linea generale tende a definire le diverse strategie di adeguamento di mezzi e materiali propri della cultura globalizzata a esigenze di riaffermazione di valori individuali e di caratteri della propria cultura di appartenenza.

Credo che l’opera di Jimmie Durham (1940-2021) sia una delle più rappresentative espressioni della glocalizzazione in arte. Il tratto distintivo della sua ricerca sta nell’assemblaggio di oggetti quotidiani e materiali eterogenei per dare vita a esseri zoomorfi dal sapore preistorico o ad androidi inerti e imperfetti che sembrano riemersi dalle macerie di un distopico Occidente tardocapitalista. Un ipotetico scavo tra queste macerie porta l’artista a riattivare i detriti rinvenuti nelle soluzioni di un polimorfismo plastico tenero e sinistro al contempo.

Lo scarto si pone quindi come elemento centrale di una poetica volta alla sovversione perpetua delle logiche del consumo e dello spreco, ma si costituisce anche come metafora di emarginazione.

Lo stesso Durham definisce infatti il suo processo formativo come «combinazione illegale con oggetti rifiutati»: un modo per prendere idealmente le distanze dagli stereotipi della cultura massificata e conquistare una posizione lateralizzata rispetto ai suoi condizionamenti.

Il ciclo dedicato ai grandi mammiferi europei, interpretati combinando teschi, bucrani, frammenti di mobilio, abiti usati, cavi elettrici, coperte e altri elementi di recupero, vuole porsi come tributo a esseri viventi del “vecchio continente” estranei alle vicende umane e liberi di vivere in armonia con la natura.

Nella visione dell’artista la spazzatura che invade le città diventa infatti il confine ideale tra lo spazio urbano e quello naturale perché in essa animali di varia specie ricavano spesso il loro habitat.

L’osservazione di queste opere fa venire in mente Monogram (1955-59) di Robert Rauschenberg, l’opera con la capra angora impagliata cinta da uno pneumatico che ‘pascola’ su una pedana rozzamente dipinta a toni grigi e bruni.

Questa combinazione di elementi diventa sistematica nell’opera di Durham, al punto quasi da potergli riconoscere una salda radice new-dada. Ma le radici condivise con Rauschenberg sono anche umane: entrambi gli artisti infatti sono per un quarto di sangue cherokee, e questo aspetto sembra emergere proprio nella critica alla disarmonia tra uomo e natura e nel tentativo di rivivificazione degli spiriti animali – la religione aborigena cherokee era zootecnica – tramite la realizzazione di totem zoomorfi.

Nella poetica di Rauschenberg questo aspetto resta sullo sfondo, mentre in quella di Durham risulta centrale. L’artista ha dichiarato infatti di appartenere al «ramo selvaggio» dell’umanità per riaffermare la sua obliquità rispetto alle convenzioni della società in cui ha vissuto.

In un recente articolo per “Il Manifesto” Teresa Macrì ha riportato un’affermazione dello stesso Durham molto utile per comprendere questo aspetto della sua poetica: «(…) quando mi definisco selvaggio mi contrappongo sempre a una cultura differente dalla mia. In questo caso chiunque venga a Roma e provenga da una minoranza etnica può sentirsi selvaggio. (…) Probabilmente l’etre sauvage è colui che ha un rapporto più forte con la natura: tutti gli Indiani d’America segregati nelle riserve e che non hanno la possibilità di conoscere il resto del paese, sono selvaggi».

Numerose sono le opere di Durham che, già a partire dagli anni Ottanta, tematizzano la situazione opprimente delle riserve amerinde e si riconnettono al suo attivismo nell’ambito dell’American Indian Movement. Ma la sua concezione “selvaggia” dell’arte si riconnette invero alle radici dell’arte stessa: la costruzione di totem e di feticci con materiali di varia natura riattualizza infatti una pratica, quella del bricolage, originariamente connessa all’attività mitopoietica, dalla quale scaturisce quelle artistica.

Ne Il pensiero selvaggio (1962) Claude Lévi-Strauss distingue il fare specializzato, svolto secondo regole precise e con mezzi appropriati, proprio della scienza, da un fare più generalizzato, il bricolage, che adatta mezzi e materiali eterocliti, precostituiti, a necessità contingenti, proprio del mito.

L’arte sembra porsi a metà strada tra il fare scientifico e la mitopoiesi, poiché l’artista impiega mezzi artigianali o reinventati all’occorrenza per produrre oggetti materiali che sono al contempo oggetti di conoscenza.

A un atteggiamento costruttivo che si raccorda alle origini della creatività umana si alterna però un atteggiamento distruttivo, idealmente assegnato alle forze di una natura che si ribella alle abitudini inquinanti dell’uomo di oggi. Numerose sono infatti le installazioni di Durham nelle quali aerei, automobili, frigoriferi e altri simboli del comfort sono schiacciati dal peso di massi e meteoriti, concepiti dall’artista come entità rivelative che smascherano le illusioni di affidabilità veicolate dalla progettazione industriale e architettonica.

D’altra parte, la pietra assume, nella poetica di Durham, il valore di una forma scultorea radicale, in quanto oggetto inerte eppure entropico, statico e potenzialmente instabile al contempo. Ma assume anche un inedito potere concettuale: la scelta di impiegare pietre grezze, tutt’altro che lavorate, riflette infatti una concezione plastica che si oppone alla monumentalità europea, serva delle religioni e dei nazionalismi, per ribilanciare i rapporti tra uomo e natura.

Un analogo significato riveste anche l’uso ricorrente del legno, materiale povero per eccellenza eppure ricco di potenziale trasformativo: versatile e facilmente reperibile, il legno riafferma in ogni prodotto derivato la propria materialità universale e la tenacia creativa della natura.

In correlazione con altri materiali industriali, come avviene nelle opere di Durham, esso ci riporta però alla conflittualità ancora irrisolta tra natura e cultura, uno scontro destinato a rimanere, forse per sempre, senza soluzione.