L'inutilità politica dell'autentico
Stefano Righetti

01.01.2022

La pandemia definisce un passaggio e, come ogni passaggio, determina atteggiamenti contrapposti. Fa sorgere, istintivo, uno sguardo rivolto all'indietro, che reclama il ritorno a una normalità in procinto di perdersi, e lascia apparire inquietudini che cercano di interrogarsi sugli orizzonti possibili che l'incertezza ancora nasconde.

Nel dramma del suo accadere il Covid ha aperto distanze e creato posizioni contrapposte. Ha distinto inesorabilmente un ieri dall'oggi e ha posto sotto nuova luce problemi che continuano a sembrarci irrisolvibili, come l'organizzazione delle nostre vite e il ritmo produttivo in cui abbiamo accettato che queste venissero assorbite, fino a coincidere integralmente con la funzione economica che il caso, il destino, la raccomandazione hanno concesso di ricoprire alla nostra qualsivoglia formazione “utile allo scopo”.

Lo sguardo di chi guarda indietro non se ne rassegna. Alza contro le disposizioni di prevenzione sanitaria gli emblemi di quei principi di libertà individuale che hanno accompagnato fino qui la condizione di quello stesso liberismo di mercato in cui siamo intrappolati nelle sue diverse variabili all'Ovest come all'Est, e il cui corollario è lo sfruttamento e l'usura permanente delle nostre vite e di quella del pianeta.

Ma protestare per la mancanza di libertà senza alcuna riflessione sui modi di vita economico-sociali che hanno prodotto e diffuso il Covid, vuol dire rassegnarsi semplicemente a reclamare tutto ciò che il Covid ha drammaticamente sospeso, e dal cui interno è sorto esso stesso.

Che una certa filosofia dell'“autentico” dovesse seguire questa deriva rappresenta soltanto la riprova tardiva della sua inadeguatezza a misurarsi con l'ordine di quelli che chiamiamo i “problemi reali”.

È dunque evidente che la rivendicazione giuridico-formale della libertà, così come oggi viene avanzata da alcuni settori della società e da diversi intellettuali, deve contenere anche un suo tacito appiattimento all'esistente, ora che l'esistente appare minacciato da eventi imprevisti dall'ordine abituale delle cose.

Ma perché possa esprimersi, quella rivendicazione di libertà così esercitata deve fondarsi su un doppio atteggiamento di rimozione e di riduzione: negare l'effettiva portata dell'emergenza e mettere in discussione i dati della pandemia.

Col paradosso che il fine di quella posizione deve idealmente coincidere con gli interessi di ciò che anche i governi stanno tentando di proteggere (la difesa a oltranza dell'ordine esistente e della sua dinamica produttiva). Con l'unica differenza che ai governi è richiesto un esercizio di responsabilità che un certo pensiero dell'autentico ritiene evidentemente superfluo.

In ogni caso, vale per entrambi il principio che la pandemia, al di là del tentativo della sua rimozione, o dello strenuo adattamento del sistema ai suoi drammatici effetti, non debba diventare l'occasione per alcun ripensamento della forma economico-politica in cui il Covid ha preso vita e spazio.

Eppure, se la crisi ecologica è stata abilmente rimossa dai governi subito dopo le solenni promesse, e contestata in ogni sede sotto l'urgenza della crisi energetica (che, va detto, ha la sua origine proprio in quella rimozione perpetrata ormai da decenni a uso e profitto delle fonti fossili nonostante il loro impatto ecologico e sociale), la pandemia avrebbe reso la rimozione del tema dai telegiornali e dai discorsi comuni più difficile. Ma al pensiero dell'autentico il tema ecologia evidentemente non interessa, così come non interessa quello della pandemia.

Risultato: si può continuare a dire che non esistono fatti ma solo interpretazioni e che quindi il Covid è solo un'interpretazione, anche se la morte restringe di fatto le possibilità dell'interpretazione, e il gioco postmoderno del rinvio all'infinito dei significanti diventa più complicato. A quel punto, la negazione deve appellarsi al piano giuridico come ultima spiaggia.

Ma assunta quest'ultima posizione alla filosofia dell'autentico non rimane altro che reclamare il pieno ripristino della norma su cui si fonda il modo di vita “inautentico”.

La sua astratta rivendicazione di libertà contro le misure di contenimento della pandemia è semplicemente l'arretramento verso un'astratta (e di per sé sempre ambigua) forma di individualismo.

Non la libera espressione del pensiero, ma la libera circolazione di merci e consumatori è ciò che qui è in gioco e che questa rivendicazione di libertà sta difendendo. La libertà di andare per negozi e ristoranti e in vacanza a prescindere da qualunque condizione. Difendere la norma per rivendicare la “normalità perduta” è così l'ultimo atto di un pensiero che rivela in ciò la sua più illuminante inutilità politica.

Se invece quella rivendicazione di autenticità implica un voler lasciare l'inautentico al proprio destino sentendosene ideologicamente distinti, magari in virtù di qualche classicismo accademico e, dunque, per qualche proprietà transitiva fin qui ignota alla scienza, anche incolumi, questo (oltre che errato e politicamente inaccettabile) richiederebbe almeno il coraggio di rendere una tale soluzione esplicita.

Dal momento che ciò non è avvenuto dobbiamo accontentarci di credere che quel disprezzo per il modo di vita inautentico non esprima evidentemente altro se non un modo un po' più originale di abitare (e dunque accettare) un mondo altrimenti insopportabile ma, di per sé, indiscutibile – al limite soltanto disprezzabile.

Eppure, è vero che al di là del rimpianto e del lamento televisivo per le libertà perdute, per le feste di capodanno in piazza a onore degli ubriachi di quartiere assurte ora a emblema della concordia civile, dei “sei ti va bene così o quella è la porta” delle ultime riforme del lavoro dei governi che difendono civilmente lo “stato attuale delle cose”, la crisi sembra avere aperto anche nuove inattese consapevolezze.

Le abbiamo viste organizzarsi nello sciopero generale di Cgil e Uil; le vediamo manifestarsi nel fenomeno, del tutto sottaciuto e ignorato dalle trasmissioni televisive, di chi ha deciso in questi mesi che era giunto forse il momento di cambiare vita, di abbandonare lavori non soddisfacenti, sottopagati o che privavano della libertà concreta di aspirare a un rapporto più gratificante con la propria esistenza; e lo vediamo nella consapevolezza sempre più diffusa che il modello di vita che abbiamo eletto a “normalità” ci ha in realtà condotto alla distruzione climatica e ambientale.

Ancora incerta e limitata, osteggiata dai governi della pandemia come dai loro oppositori della libera circolazione del consumo, la consapevolezza che occorre immaginare una diversa condizione (politica, economica, sociale) comincia a farsi strada in molti di noi.

Buon Anno!