L'intollerabile presente, l'urgenza della rivoluzione
Maurizio Lazzarato

05.02.2022


Introduzione



Non possiamo negare che la società borghese ha vissuto, per la seconda volta, il suo xvi secolo – un secolo che spero suonerà a morto per lei come il primo l’adulò in vita. Il vero compito della borghesia è la creazione del mercato mondiale [...]. Siccome il mondo è rotondo, sembra che questo compito sia stato portato a termine con la colonizzazione della California, dell’Australia e con l’inclusione della Cina e del Giappone.

Ecco la questione difficile per noi: sul continente la rivoluzione è imminente e avrà sin da subito un carattere socialista. Ma non sarà essa necessariamente schiacciata in questo piccolo angolo di mondo, dato che il movimento della società borghese è, in regioni molto più vaste, ancora in ascesa?

Il libro nasce come commento a queste poche righe di una lettera di Marx a Engels, datata 8 ottobre 1858. Marx fissa il contesto della rivoluzione: il mercato mondiale; lo spazio in cui si presenterà: l’Europa; la forza soggettiva che la incarnerà: la classe operaia.

Nel capitalismo, però, tutto avviene molto velocemente, anche la rivoluzione. Appena cinquant’anni dopo questa lettera, la storia prende una piega molto diversa: la rivoluzione vittoriosa esplode ovunque nel mondo e per tutto il Novecento, tranne che in Europa (e nel resto del Nord). Ma non sarà la classe operaia a farla. Il contesto resta immutato, il mercato mondiale, ma il pericolo per la rivoluzione ora viene dall’Europa, da “quel piccolo angolo di mondo” che, al fine di soffocarla, finanzierà e alimenterà tutte le controrivoluzioni e le guerre civili possibili.

Ben due cicli di rivoluzioni seguono rapidamente le rivoluzioni socialiste di cui parla Marx! Ai margini del capitalismo (Russia 1905 e Messico 1910), nelle colonie e nelle semicolonie (Cina, Vietnam, Algeria, Cuba ecc.), le rivoluzioni dei “popoli oppressi”, degli schiavi, dei colonizzati, prendono il potere proprio mentre la classe operaia fallisce! Queste rivoluzioni “contro il capitale di Marx” (Gramsci), prodottesi lì dove non dovevano, condotte da soggetti “sottosviluppati” rispetto alla classe operaia del centro, hanno creato, nel bene e nel male, delle formidabili macchine politiche: quella sovietica ha segnato il destino dell’umanità nel xx secolo, quella cinese segnerà invece il destino del xxi, mentre le rivoluzioni anticoloniali hanno lanciato il primo vero e profondo attacco all’organizzazione del mercato mondiale.

Benché i partiti comunisti sostenessero che contadini, proletari, poveri, donne e colonizzati agivano sotto la direzione della classe operaia, l’egemonia politica di quest’ultima cominciava a scricchiolare. Con il terzo ciclo di rivoluzioni, quello del secondo dopoguerra, i modi delle rotture e i soggetti politici mutano ancora.

Tra questi ultimi se ne impone uno del tutto nuovo, il movimento femminista, che mette definitivamente fine alla centralità della classe operaia nel processo rivoluzionario e afferma una nuova molteplicità. Solo cinquant’anni dopo la rottura sovietica, le condizioni della rivoluzione sono dunque cambiate ancora, senza trovare però le forze soggettive capaci di attualizzarla.

Persa quest’arma strategica, le lotte non possono che essere difensive; esse cercano di salvaguardare ciò di cui la macchina a due teste Capitale/Stato si appropria regolarmente, senza incontrare delle vere resistenze. Scomparsa la rivoluzione, il contenuto della lotta, il suo terreno, persino i tempi dello scontro, sono nelle mani del nemico. Anche riformismo e socialdemocrazia dipendono dall’attualità della rivoluzione. La continuità che il processo rivoluzionario aveva conservato dai tempi della Rivoluzione francese, sembra interrotta.

Questo libro non pretende di rivelare quale forma avrà la rivoluzione del xxi secolo o se sarà ancora possibile. Più modestamente, cerca di tracciare un bilancio delle rotture rivoluzionarie del Novecento, che mancano ancora di una riflessione adeguata, e di definire le condizioni a partire dalle quali si potrebbe ricominciare a parlare di rivoluzione.

Nonostante l’estensione e l’intensità delle lotte che eccedono il rapporto capitale/lavoro, che investono l’insieme dei rapporti di potere (i rapporti tra uomo e donna, i rapporti coloniali, ogni forma di gerarchia e di subordinazione, comprese quelle tra umani e non umani), la rivoluzione degli anni Sessanta e Settanta subisce una sconfitta che farà scomparire dal panorama politico tanto il concetto quanto la sua possibile realizzazione.

Le lotte dei colonizzati, delle donne, degli studenti e delle nuove generazioni di operai rendono inefficaci le modalità di azione, le forme di organizzazione e gli obiettivi del movimento operaio, senza però produrre nulla di paragonabile, quanto a efficacia e determinazione, alle rotture praticate nell’Est e nel Sud del mondo.

Le ipotesi avanzate per cercare di spiegare il declino della rivoluzione chiariranno forse anche le condizioni per cominciare a ripensarla.

L’ipotesi delle due rivoluzioni – Il ciclo di rivoluzioni iniziato con il ’17 sovietico si esaurisce essenzialmente a causa della separazione tra “rivoluzione politica” e “rivoluzione sociale”. Il giovane Marx faceva della loro unità la chiave della rivoluzione. Se quest’ultima si limita esclusivamente a quella politica (come si verificherà in Russia, Cina, Vietnam, Algeria, Cuba ecc.), rapidamente si trasformerà in una riproposizione dei dispositivi della forma Stato. Il ciclo della rivoluzione mondiale del secondo dopoguerra termina negli anni Settanta con il dissolversi tanto della “rivoluzione” quanto del “divenire rivoluzionario”, concetti che nel linguaggio dell’epoca traducono le categorie del giovane Marx. Il modo di articolare le due forme della rivoluzione, cambiare il mondo e cambiare la vita, non è ancora stato trovato!

L’ipotesi della rivoluzione mondiale – Marx afferma chiaramente che il successo della rivoluzione dipende dai rapporti di forza su scala mondiale. La rivoluzione sarà mondiale o non sarà. Oggi l’internazionalismo è ancora più necessario che all’epoca di Marx. Il mercato mondiale è il luogo in cui si forma un “divario”: sebbene la strategia capitalista sia mondiale dal 1492, le forze rivoluzionarie si porranno il problema solo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Ciò su cui insiste Marx quando parla di mercato mondiale, è la forza “rivoluzionaria” del Capitale, mentre i rivoluzionari del Sud e dei margini leggono lo stesso processo dal punto di vista degli oppressi. La rottura con l’imperialismo deve avvenire “qui e ora”, senza passare attraverso lo sviluppo delle forze produttive, il recupero dei “ritardi” tecnologici, la crescita della classe operaia, mettendo così in discussione lo storicismo del movimento operaio e la sua filosofia della storia.

Un secolo fa Rosa Luxemburg aveva colto l’impossibilità del divenire “mercato mondiale” del capitalismo che oggi si sta verificando sotto i nostri occhi: “mentre tende a divenire forma economica mondiale, s’infrange contro l’incapacità intrinseca ad essere una forma mondiale di produzione”1. È ciò che gli esperti chiamano “fine della globalizzazione” senza poterne indicarne le cause.

L’ipotesi del lavoro gratuito – All’origine di queste sconfitte c’è un deficit teorico e politico, che le lotte delle donne e dei colonizzati fanno emergere e problematizzano. L’organizzazione del lavoro e del potere presuppone due condizioni che Marx e i marxisti sembrano sottovalutare: la divisione tra lavoro astratto (salariato) al centro e lavoro non salariato nelle colonie, e tra lavoro pagato degli uomini e lavoro gratuito delle donne. Il razzismo e il sessismo sono i motori di due modi di produzione – schiavista/servile e patriarcale/domestico/eterosessuale –, entrambi irriducibili al modo di produzione capitalistico e inclusi nella sua organizzazione.

L’ipotesi della forza politica del lavoro gratuito – I marxisti definiscono il lavoro “non libero”, gratuito o a buon mercato dei colonizzati, delle donne, degli schiavi come “improduttivo”, diversamente dal lavoro industriale. Questo lavoro, che sarebbe improduttivo anche dal punto di vista rivoluzionario, è invece ancora più importante politicamente che economicamente. Nel corso del Novecento il “lavoro gratuito” farà le sue rivoluzioni, mentre le innovazioni teoriche più significative saranno sviluppate dai vari movimenti femministi.

L’ipotesi della rifondazione del concetto di classe – La scomparsa della rivoluzione politica e sociale è accompagna dall’abbandono della lotta di classe. Al contrario, partendo dal femminismo materialista francese, noi considereremo le donne come una classe, assoggettata dalla classe degli uomini e sottomessa al loro potere. È allo stesso modo che bisognerà considerare i rapporti tra bianchi e non bianchi (razzializzati), ovvero come rapporti tra classi. L’affermazione della molteplicità delle classi è correlata alla perdita della loro omogeneità: sono composite, attraversate e divise da minoranze. La classe operaia è sempre stata costituita da “minoranze” razziali e sessuali.

La classe delle donne mostra rilevanti differenze interne (donne bianche borghesi, proletarie, del terzo mondo, nere, lesbiche) che possono trasformarsi in opposizioni. Anche la classe dei razzializzati è formata da uomini e donne i cui rapporti interni sono segnati dalla subordinazione delle donne e dall’autorità degli uomini. Il rapporto tra le classi, il rapporto delle minoranze con le classi e il rapporto di questo insieme composito con la macchina del Capitale, è un rompicapo sul quale la rivoluzione mondiale fallirà, mostrandosi incapace di operare il passaggio dalla lotta di classe (capitale/lavoro) alle lotte delle classi al plurale.

L’ipotesi dei diversi modi di produzione – Il modo di produzione domestico, patriarcale, eterosessuale e il modo schiavistico-servile non vengono progressivamente “sussunti” dal modo di produzione capitalista. Tutti i rapporti sociali precapitalistici sono destinati a scomparire, dice Marx, ma la razza e il sesso sembrano smentire questa profezia. La macchina capitalista è un ibrido di lavoro astratto e lavori “arcaici” che non diventano capitalistici in senso proprio. L’assoggettamento “donna”, come l’assoggettamento “schiavo”, colonizzato, razzializzato – unitamente ai loro modi di organizzazione e di soggettivazione – non sono riconducibili all’assoggettamento operaio.

L’ipotesi della violenza che fonda, della violenza che conserva e della forza che minaccia – Ciò che accomuna queste classi è il modo in cui si sono formate. Sono l’esito di una guerra di appropriazione in cui la violenza ha separato chi comanda da chi obbedisce, chi lavora da chi trae vantaggio dal lavoro altrui. Le classi non esistono prima dell’atto di appropriazione. È solo dopo che la forza ha diviso i vincitori dai vinti, che si costituiranno l’organizzazione del lavoro, i dispositivi di assoggettamento, le norme, le istituzioni che trasformano i vinti in governati (operai, donne, schiavi, colonizzati). L’ordine normativo è orientato dalla forza. Convertire la violenza che fonda (appropriazione) nella violenza che conserva (legge, norma) è il modo normale di funzionamento del potere. La costruzione di una forza che minacci queste violenze è l’obiettivo della rivoluzione.

L’ipotesi della colonizzazione interna – Le rivoluzioni del Novecento attaccano in primo luogo la divisione tra centro e periferia, Nord e Sud, lavoro astratto e lavoro gratuito (molto più importante della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, poiché quest’ultima riguarda solo il lavoro “produttivo”), mentre i movimenti femministi si mobilitano contro un’altra forma del lavoro gratuito. Il capitale ha risposto a questo attacco politico con una nuova divisione internazionale del lavoro, instaurando la doppia territorialità centro/periferia, lavoro astratto salariato e lavoro non salariato in ogni paese.

La precarietà, la vulnerabilità, l’impoverimento, il lavoro gratuito o sottopagato delle donne, dei colonizzati e degli schiavi, sono imposti a una parte sempre più vasta della vecchia classe operaia e del nuovo proletariato (precari, migranti, cittadini originari delle ex colonie, poveri ecc.). Archiviata la colonizzazione esterna, il capitalismo avvia una “colonizzazione interna” come modello di governance, nella quale razzismo e sessismo costituiscono i dispositivi imprescindibili della messa al lavoro, dell’assoggettamento e del controllo politico.

L’ipotesi del “soggetto imprevisto” – La rivoluzione si scontra con il problema di trasformare la molteplicità delle classi e delle minoranze in soggetto rivoluzionario. Il soggetto politico è “imprevisto”, nel senso che, a differenza della classe operaia, non è già dato. Il soggetto non preesiste alla sua azione (politica), è definibile solo dal “presente” del processo rivoluzionario in divenire. Il presente è il tempo dei movimenti politici, perché le classi non si aspettano nulla dal futuro della rivoluzione. La costruzione dei rapporti tra “soggetti” liberi (rivoluzione sociale) non può essere rimandata a un dopo della rivoluzione politica. La rivoluzione deve avvenire “qui e ora”. In questo modo sarà contemporaneamente affermata la molteplicità delle classi (e delle minoranze che le compongono) e la negazione che dovrà abolirle.

L’ipotesi della catastrofe – Dalla Prima guerra mondiale, il capitalismo è caratterizzato dalla reversibilità di produzione e distruzione. Ogni atto di produzione (e di consumo) è anche atto di distruzione. Il capitalismo non produce solo crisi, ma anche catastrofi ecologiche, sanitarie, climatiche e politiche (i fascismi) che trasformano la distruzione in autodistruzione.

L’ipotesi del rovesciamento dei rapporti di forza tra Sud e Nord – Per quanto le teorie critiche lo neghino, guerre e rivoluzioni continuano a determinare l’inizio e la fine delle grandi evoluzioni politiche. L’ennesima sconfitta del più potente esercito del mondo (e dei suoi alleati) segna la fine del sogno egemonico degli Stati Uniti sul pianeta. Anche l’estrema sinistra aveva confuso l’inizio della fine del “secolo americano” con la fondazione dell’Impero (sic!). La sconfitta afgana apre definitivamente la via alla potenza cinese, che va letta come il risultato della più importante guerra contro il colonialismo combattuta nel Novecento.

Anche se nella forma di un capitalismo di Stato (“socialismo di mercato”, in cinese) s’impone una inversione geopolitica tra Nord e Sud, che si manifesta anche nel fallimento di ogni guerra neocoloniale (Iraq, Libia, Siria ecc.) e nell’impossibilità di fermare i flussi migratori delle soggettività eredi delle rivoluzioni del Novecento. In effetti, il Novecento non è stato il secolo americano, ma dei “popoli oppressi” e del lavoro gratuito, che hanno gettato le basi di un cambiamento dei rapporti di forza che produce, diversamente da quello conquistatore della colonizzazione, un razzismo (e un sessismo) impaurito, difensivo, pieno di risentimento ma altrettanto aggressivo.


1 Rosa Luxemburg, L’accumulazione del capitale, trad. it. di B. Maffi, Einaudi, Torino 1974, p. 470.



©Maurizio Lzzarato,  L'intollerabile presente, l'urgenza della rivoluzione, Ombrecorte 2022