11.06.2021
Credere che le rappresentazioni artistiche e, di conseguenza, le forme attraverso cui l’immagine si rende manifesta stiano convergendo, in maniera del tutto omogenea, verso una radicalizzazione del concetto di immagine ambientale sarebbe azzardato e, soprattutto, quanto mai riduttivo. D’altro canto, non si può sottovalutare il ruolo che tali dispositivi visivi e ambientali – ricollegabili a pratiche artistiche e non – giocano all’interno della società contemporanea, offrendosi quali zone sensibili in cui rintracciare meccanismi di «presenza, interazione, immersione ed empatia» (Carbone 2020, p. 9) legati al modo in cui intratteniamo rapporti col mondo che ci circonda.
È questo, ad esempio, il caso delle installazioni artistiche; pratiche ambientali in cui linguaggi differenti – dalla pittura al materiale sonoro, passando per immagini in movimento, performance e scultura – trovano un terreno comune e, a volte, una sintesi che si palesa nelle vesti di un eterogeneo mash-up mediatico. Un confronto prolifico che spesso coinvolge nuovi modi di concepire, vedere ed esperire le immagini servendosi di meccanismi e operazioni appartenenti ad altre tecnologie mediali. Si pensi, a tale proposito, alle affinità tra tali rappresentazioni artistiche e l’ecologia del cinema: laddove il termine “ecologia” denota e circoscrive le strategie specifiche messe in campo da un particolare dispositivo ambientale e visivo.
Non si può negare infatti come la stessa pittura – pratica antichissima e, solo apparentemente, restia a qualsivoglia rinegoziazione mediale – si veda coinvolta costantemente in uno gioco delle parti capace di concepirla talvolta vittima dei nuovi media, talaltra carnefice. Anzi, si potrebbe dire che è proprio nell’incontro-scontro con le innovative tecniche di produzione e fruizione che il vecchio dispositivo-cornice coglie la possibilità non solo di proporre aspetti mediali precedentemente inimmaginabili, ma addirittura di avviare una riflessione strutturale e complessa su se stesso.
Dunque, per un’analisi più compiuta delle tecnologie di produzione dell’immagine contemporanea, appare più prudente riprendere i termini di “compenetrazione” e “integrazione” tra vecchi e nuovi media: forme di funzionamento tecnologiche che Bolter e Grusin (1999) utilizzano in quello che è ormai un classico della teoria e dell’archeologia dei media. Tale prospettiva ci permette di incontrare, a partire dalla massima di McLuhan «il ‘contenuto’ di un medium è sempre un altro medium» (1964, p. 16), livelli di analisi mediatica molteplici e complementari. Tra questi vi rientrano sicuramente l’esplorazione degli ordini di continuità e discontinuità che legano tra loro tecnologie differenti, l’interrogazione dei caratteri innovati insiti ai media digitali con cui entriamo costantemente in contatto e, da qui, la possibilità di astrarre informazioni decisive e pertinenti ad una comprensione delle contemporanee modalità visuali.
Restando ancora all’interno del panorama analitico sin qui abbozzato, non si può dimenticare come l’avvento del digitale negli anni Ottanta e il conseguente ingresso nell’era postmediale – per dirla con Rosalind Krauss (1999) – siano alla base di alcune criticità insite ai media contemporanei. Problematiche, queste, che hanno lasciato emergere la necessità di una tradizione disciplinare – ancora oggi dai tratti incerti e in progressivo divenire – che ha visto media studies, studi media-archeologici e teoria del cinema riflettere su alcuni aspetti peculiari delle nuove tecnologie. Si pensi in particolare ai fenomeni di commistione e ri-mediazione (Bolter, Grusin 1999), dispersione e migrazione (Kittler 1986), ricollocazione (Casetti 2015) e uniformazione (Krauss 1999) tra media differenti, in grado di evidenziare una progressiva dissoluzione – che coinvolge anche i dispositivi ad essi collegati – le cui conseguenze si sono tradotte, nel corso degli anni, in una costante mutazione e ritrattazione dei caratteri distintivi di ogni singolo medium.
Intercettare questi fenomeni e prestare maggiore attenzione alle moderne tecnologie mediatiche – nonché alle loro forme di funzionamento – risulta essere un campo d’analisi efficace non solo per le recenti scienze e teorie della comunicazione, ma anche per quelle discipline – come i visual culture studies – il cui fulcro di interesse ruota attorno allo studio delle immagini e alla loro capacità di far presa sulle attuali dinamiche sociali. Infatti, non è difficile notare come le modificazioni ontologiche di cui sono protagonisti i nuovi media finiscono inevitabilmente per riflettersi – come su uno specchio – sullo statuto stesso dell’immagine.
Da qui, le odierne tendenze ecologiche unite all’aspirazione del visivo di farsi sempre più ambiente, si offrono come forme sintomatiche di quello che potremmo definire un sogno primordiale che ha attraversato secoli di produzioni d’immagini e la cui origine coincide con la nascita delle stesse rappresentazioni iconiche. Non è un caso, dunque, che i media studies indichino nelle immagini ambientali contemporanee – dalle installazioni artistiche sino ai caschi e visori VR (virtual reality) – il concretizzarsi, attraverso le innovative pratiche tecnologie, di una doppia pulsione specifica dell’immagine: il tentativo di invadere il campo del reale e della realtà – abbandonando lo spazio finzionale in cui è stata culturalmente relegata – e la volontà di raggiungere un’utopica immediatezza che le permetta di offrirsi all’osservatore in tutto il suo essere non-mediata. In una strategia di dissimulazione del medium che vorrebbe eliminare, idealmente, ogni forma di mediazione a favore di un radicale effetto di presentificazione.
Avvicinare le immagini in modo consapevole vuol dire riconoscere loro questo antico desiderio – rintracciabile già negli ambienti totalizzanti dei cicli affrescati oppure, andando ancora più indietro, nelle pitture paleolitiche – le cui tracce si ritrovano condensate nelle modalità attraverso cui le stesse immagini si presentano: nella capacità di celare o esplicitare il proprio medium, nell’efficacia dei dispositivi utilizzati e nei giochi di potere che questi sono in grado di intrattenere con il nostro occhio. È sul confine dell’immediatezza e dell’ipermediazione che le immagini assolvono, grazie alle tecnologie mediali messe a disposizione di una data epoca, a scopi specifici che da esthesis si fanno ethos e polis. Come spiega Andrea Pinotti in merito alle immagini immersive, tali pratiche «si riverberano sugli atteggiamenti individuali e collettivi, e inaugurano non solo delle nuove forme di intersoggettività, ma anche delle inedite soggettività politiche» (Pinotti 2020, p. 144).
Si
riconosce così, in maniera quanto mai esplicita, tutta l’importanza
che le strategie attraverso cui l’immagine si manifesta, le
tecnologie che ne rendono possibile la fruizione e i dispositivi
scopici coinvolti giocano all’interno dell’economia di senso di
una particolare unità visiva. In altre parole, approcciare le trame
iconografiche contemporanee da questa prospettiva ci permette di
interrogare l’immagine sui suoi desideri e sulle sue ambizioni, a
partire non più dalla domanda “cosa
le immagini ci dicono?” ma “come
e perché esse
comunicano con noi?”.