L'ideologia antropologica
Paolo Missiroli

24.05.2021

Se vi è qualcosa di utile che la critica dei moderni ha lasciato in eredità al nostro tempo storico è la capacità di mettere in dubbio i presupposti attraverso cui, sempre, noi pensiamo il nostro stare nel mondo, la nostra storia occidentale e globale, le nostre prospettive. La mancanza di questo pensiero critico genera tutta una serie di mostri con cui è giunto il momento di confrontarsi, almeno in parte, almeno cominciando, anche senza sapere la destinazione finale. Uno di questi mostri è la diffusione a livello mass-mediatico di tesi assolutamente inindagate, spacciate per innovative e definitivamente provate. È il caso, ad esempio, dei due best seller di Yuval Noah Harari.

Oggigiorno, il riferimento a Sapiens e Homo Deus è obbligatorio, per chi parli di una serie di temi à la page, sempre senza addentrarvisi troppo: Antropocene, globalizzazione, rapporto uomo-animale, storia dell’Homo Sapiens, storia economica globale. Persino un ex presidente del Consiglio dei Ministri italiano ha segnalato Sapiens sulla sua e-news. Si tratta di un testo, soprattutto quest’ultimo, che è divenuto un vero e proprio timbro di competenza, di “buone letture”. Basta averlo letto per sapere di cosa si parla. Non è l’unico, naturalmente, ma c’è da dire che questa volta il fenomeno è particolarmente invasivo: su Sapiens è stata fatta persino una graphic novel, e sono in programma serie di documentari. L’autore è assurto a fama mondiale, punto di riferimento delle élite occidentali.

A cosa si deve questa diffusione e quali sono queste tesi inindagate di cui si parlava? Le due cose coincidono all’interno in una singola frase: le cose non potevano andare che come sono andate. La cosa non è esplicitata in questo modo da Harari, ma si intuisce chiaramente dall’andamento del testo. Innanzitutto, per un libro che vorrebbe essere una Breve storia dell’umanità, come recita il sottotitolo di Sapiens, è curiosamente concentrato solo sull’Occidente, o meglio, è l’Occidente globale l’esito perfetto, già da sempre iscritto nelle cose, della storia dei Sapiens. Perché? È presto detto: perché l’Homo Sapiens è un “serial killer ecologico”.

È una storia della colpa ecologica, quella di Harari: cos’è l’umano se non il nihil privativum della Natura, il vuoto nel pieno di un piatto tutto uguale, già da sempre immoto e, sostanzialmente, noioso? L’Homo Sapiens imprime il movimento alla natura perché la distrugge per essenza. Harari naturalizza la colpa ecologica, antropologizzandola: gli esseri umani non possono che generare la crisi ecologica perché è nella loro natura distruggere alberi, animali, territori. Ecco dunque che la crisi ecologica - vogliamo chiamarla Antropocene? Facciamolo, dice Harari, ma a patto che si dica che l’Antropocene esiste da diecimila anni, cioè da quando gli esseri umani hanno inaugurato il Neolitico- ha una sola soluzione: un approfondimento ulteriore dello sviluppo tecnico, lo sviluppo di una serie di macchine che ci toglieranno il fardello della morte, delle malattie, delle sofferenze e della stessa Terra. Ecco così che gli uomini diventeranno divinità: da animali a dei, appunto. Voilà.

Non importa nulla ad Harari (e ai suoi lettori) che milioni di esseri umani non abbiano mai vissuto nel neolitico (e molti ancora non lo fanno); né che, forse, provocare l’estinzione della megafauna pleistocenica non sia proprio la stessa cosa che causare la sesta estinzione di massa a cui assistiamo oggi. Quello che conta è naturalizzare la crisi ecologica. È forse per questo che assistiamo alla diffusione mass-mediatica così vasta di questi due libri. Cosa può assolvere le classi dirigenti occidentali meglio di questo racconto pre-confezionato? Noi non potevamo che scatenare la crisi ecologica; possiamo uscirne solo facendo di più, meglio, quello che già facciamo; è nel futuro che risiede la chiave del presente, e non viceversa. Quello che c’è ora, che lo si accetti, era destino.

Quello che verrà, non è che un passo in avanti (ma che pare, al lettore critico, molto “sul posto”). Harari, nei suoi libri, non esita a lanciarsi in lode sperticate del denaro, come mezzo di astrazione universale. È nel denaro che si compie l’essenza umana: allontanarsi dalla presenza, dal mondo per come è. Si capisce bene perché per l’Occidente neoliberale, i libri di Harari sono una sorta di inversione demoniaca del motto marxiano: dixit et salvavi animam meam.

Ci illudiamo, se pensiamo che basti disarticolare il presupposto antropologico che regge l’impianto di Harari per liberarcene. Si tratta di un passaggio teorico necessario, ma insufficiente. È evidente che l’umanità di cui parla Harari è sempre la stessa: quella bianca, maschile, occidentale, neoliberale. È per questo che pezzi larghi delle élites che guidano questa parte di mondo sono così felici, leggendo Sapiens che parla di quanto gli esseri umani siano cattivi e distruttori e quanto la crisi ecologica sia un destino: de te fabula narratur!

Chi si oppone, in varie forme, a questo modo di gestione delle nostre società sa da lungo tempo come la naturalizzazione sia l’arma preferita del capitalismo globalizzato nella sua forma neoliberale. Cosa c’è di più facile, per questo complesso socio-economico, di dire che la crisi ecologica è tra noi perché è il nostro destino? E che non se ne uscirà certo seguendo quei ragazzi che manifestano in piazza per un mondo ed una produzione diversi, ma solo affidandosi al macchinico ed alla stessa forma della tecnica che da molti decenni struttura le nostre società?

Ecco perché assistiamo oggi alla preghiera blasfema: il Capitale è Dio, e Harari il suo Profeta. Che il combattimento al primo passi per il secondo, e viceversa, è quanto chi non crede all’alternativa secca tra teoria e prassi ha imparato da lungo tempo; esattamente come ha imparato che non vi è critica senza disarticolazione di questi processi di naturalizzazione della crisi ecologica, oggi così diffusi.