Liberarsi. Una nota a proposito di Monica Sarsini
Ubaldo Fadini

30.10.2022

Non si tratta di mettere una nota sul registro, mossa della peggiore critica autoreferenziale, sia ben chiaro. Quello che vorrei brevemente tentare di evidenziare in queste righe è un percorso di scrittura e di realizzazione artistica su più piani che mi sembra stimolato dall'idea intrigante che sia possibile combinare pratiche di allentamento dell' “io” per liberare singolarità differenti e comunque accomunate da aperture, da spinte in direzioni mai ovvie. Mi vengono in mente, a proposito dell'autrice che sto richiamando: Monica Sarsini, le osservazioni di Pier Vittorio Tondelli a proposito del fin troppo celebrato scenario principe dei nostri anni '80, Firenze. Lo scrittore di Altri libertini (1980) si riferiva (nel suo Un weekend postmoderno. Cronache degli anni ottanta, 1990), con spirito amicale e con la sensibilità che gli era propria in termini di individuazione acuta di ciò che si presentava allora con valore indiscutibile, proprio all' “autrice di Crepacuore, edito da Vanni Scheiwiller”.

Riferimento importante ad una scrittrice/artista che sempre con Scheiwiller pubblicò altri testi di grande rilievo e che ha proseguito la sua ricerca rarefatta e raffinata in modi appartati ed eccentrici rispetto ai mille condizionamenti delle tante articolazioni di ciò che una volta si definiva come “industria culturale” e che vale in effetti sempre più come una polveriera di appetiti di basso livello e di ambizioni/frustrazioni ricorrenti e ingestibili a qualsiasi livello della loro meschina manifestazione.

Di Sarsini ricordo qui il non lontano e splendido Io e Agnese, accompagnato da un saggio di Ernestina Pellegrini, pubblicato da Vita Activa, 2019, la casa editrice triestina legata alla “Casa internazionale delle donne” e che dovrebbe presto pubblicare un altro testo della scrittrice fiorentina; si tratta di un esperimento di scrittura che segue altre due importanti pubblicazioni: Alice nel paese delle domandine. Racconti delle detenute di Sollicciano (2011, Le Lettere, Firenze) e Alice, la guardia e l'asino bianco. Racconti delle detenute di Sollicciano (2013, Le Lettere, Firenze). In Io e Agnese prende ancora corpo l'irriducibilità dell'autrice alle conformazioni di genere letterario che sempre e comunque accampano pretese di messa in ordine di ciò che cerca di tenere insieme esigenze di desoggettivazione e posizionamenti intimamente paradossali nei confronti della “realtà”: la quasi indicibile tenerezza di quest'ultimi li tiene fortunatamente al riparo dalle grinfie di “lavoratori” tutt'altro che “orribili”, per riprendere il poeta francese; anche momentaneamente mi verrebbe da aggiungere e ciò non è affatto insignificante.

Non c'è insomma nella narrazione “a più voci” della lunga esperienza di docente di scrittura all'interno del carcere, nella ripresa intrecciata delle parole abbandonate e lasciate al loro sussurro di base, in particolare della sezione femminile, la possibilità – criticamente “pigra” – di avvertire la presenza dell'ennesimo progetto di auto-centratura di un sé diversamente esposto o addirittura traumatizzato.

Penso così alle pagine che chiudono appunto Io e Agnese, nelle quali si può leggere: “Tra pochi giorni uscirà e sono stanca del carcere anch'io. Andrò via con lei ora che ho mantenuto la promessa, che ho scontato la strada per capirmi, uscirò da questi cancelli arrugginiti, mi consentirò di fare come se si fossero chiusi dietro a me. Poi penso a mio fratello, penso a Elisa, un giorno mentre dava da mangiare ai gatti vide una lumaca, lì per lì non ci fece caso, poi pensò che le avrebbe fatto compagnia nella cella, così la sistemò sulla fotografia a colori di due conigli che aveva ritagliato da Famiglia Cristiana, durante l'ora d'aria le trovava l'erba, la spruzzava con l'acqua e le raccontava com'erano andate le cose durante la giornata. Penso a Malina, a cui manca una forcina da tenere tra le labbra mentre si fa la treccia, l'ago, il ditale, guardare dentro una pozzanghera. Sono venuta verso di loro senza chiarezza se vederle come vittime o colpevoli, dove le ha portate la giustizia, questo stare ferme nelle privazioni, non è servito a ricreare un ordine, a riparare i torti, neanche quelli che hanno subito. (…) Alla fine mi mancherà di lei solo quel cenno che mi rivolge facendo capolino prima di sfumare come la scia di un aereo tra le croste d'intonaco cadute sul pavimento di linoleum di uno dei tanti corridoi” (pp.70-71).

Guardare le pozzanghere e avvertire nel loro improvviso agitarsi la presenza di quel “vento volatore” (Gianni Celati) che spinge pure le parole in direzioni impreviste e sempre comunque provvisorie. C'è, in prima approssimazione, un effetto di sparpagliamento che riguarda tutto e tutte/i che si sprigiona dalle pagine di questo testo e che viene da considerarsi come un modo specifico di reggere ad un mondo che non si relaziona più, che si disperde passando “di soglia in soglia” (Paul Celan) e che si cerca materialmente di trattenere nell'errore/orrore del detenere ad ogni costo, anche quello più disumano.

A me piace appunto avvertire questa dinamica atmosferica nelle urgenze di scrittura che si palesano nei testi di Sarsini, che donano una molteplicità di modi di esposizione alle tensioni/torsioni del “mondo”. Sempre tenendo d'occhio Celati, mi verrebbe da dire che all'essere “risucchiati” da una realtà cristallizzata o apparentemente mobilitata in forme comunque predeterminate, la scrittrice fiorentina oppone uno sguardo e una gestualità di segno quasi frastornato, sghembo, premessa indispensabile, a mio modo di vedere, per tentare una paradossale e inedita ri-socializzazione della letteratura dopo la sua messa in guardia, critica, nella veste di una dovuta e “resistente” asocialità di fondo contrapposta alle frenesie dell'informazione corrente, che si vuole sempre “attuale”, anche nella sua veste che spesso si spaccia proprio per letteraria.

È anche in quest'ultimo senso che si può avvicinare il recentissimo La portavoce. Racconti delle detenute di Sollicciano (Contrabbandiera editrice, Firenze 2022), curato da Sarsini e con due contributi intensi di Luciana Breggia e Vincenzo Scalia: un'altra antologia da affiancare alle precedenti e che vede al centro la figura di Cosetta, con le sue compagne detenute, con quella sua pratica di scrittura che appare come una vera e propria risorsa, individuale e collettiva, in grado di alimentare dei processi di recupero del divenire umani, del divenire-con, di ciò che indica concretamente delle possibilità di vita diversa, “desistente” (dalla criminalità come “fine”/soluzione e termine della propria vita). La scrittura può infatti permettere una via di fuga, letteralmente, dalla consegna dell'esistere all'esclusione, quella verso l'esterno e all'esterno, come sottolinea appropriatamente Scalia. Le sue trame – continuiamo ad esistere pur sempre così: tramando in un qualche modo e indispettendo allora, per non dire altro, gli agenti del disfunzionale e dell'anaffettivo – non consegnano le vite ad un destino implacabile ma aprono invece al conversare con coloro che ci leggono e leggeranno; nel caso di Cosetta, in primo luogo la “portavoce”, colei che sarà capace di trasportare appunto come un vento le parole che non si possono lanciare come cadaveri in un deposito o in un qualche mercato. Scrive Cosetta, in conclusione dei suoi testi: “Adesso che sono quasi arrivata al capolinea della mia condanna cosa ne sarà di me, ci ho mai veramente pensato? Cosa voglio? Sono sicura che non riuscirò mai a dimenticare, a perdonarmi. Mi sono perdonata? Un giorno il cappellano del carcere confessandomi mi disse: 'Lui ti ha perdonata, adesso tocca a te farlo'. La risposta è no. Niente sarà più come prima, non sarò più la Cosetta che tutti conoscevano, ogni volta che mi guardo allo specchio non mi riconosco, vedo una donna affranta dal dolore con le mani sporche di sangue, un sangue che non mi apparteneva ma che adesso fa parte di me” (p.131).

È questo il “no” della scrittura, un “no” irriducibile – nella scrittura – e che ci restituisce di quest'ultima la sua impossibilità di fondo a compiersi, a definirsi fuori e contro le mille ragioni dell'esistere. Nonostante tutto, finché sarà possibile.