Liberare il presente
Ubaldo Fadini

01.04.2021

Se c'è qualcosa che continua a fare problema è proprio il presente: trattato male, visto come semplice terreno di ricaduta o fattore di proiezione del futuro in quelle che sono le sue regolarità apparentemente inscalfibili, esso ci viene restituito tutt'al più come quel tempo che ci contiene e trattiene come meritiamo laddove si siano acquisite le competenze indispensabili per migliorare la nostra condotta di vita. In fondo, rispetto all'ideologia dominante negli ultimi decenni, alla meta-narrazione di matrice neo-liberale, si può affermare che essa ha ossessivamente riproposto la centralità di un punto di vista per così dire “biologico” rivolto appunto a naturalizzare definitivamente il quadro dei comportamenti umani (e qualche volta ha fatto anche di nuovo capolino, in tale ottica, il motivo beffardamente “classico” dello “stimolo e risposta”).

La tentazione forte è allora quella di riprendere scolasticamente in mano Oswald Splengler, rivisitandolo opportunamente all'altezza/bassezza dei tempi, come sosteneva Franz Borkenau, oppure di ritornare speranzosi alla concezione dei cicli culturali di Arnold Toynbee, e questo al fine di smuovere un po' le acque, di intervenire in una situazione che appare stagnante e favorire così qualche (stimolo di) cambiamento. Ma il rischio che allora si corre è quello di ritenere, in maniera colpevolmente pigra (cioè inevitabilmente conforme a ...) e fondamentalmente irriflessa, che soltanto ciò che è in una qualche maniera terminato può appunto alla fine essere compreso. E invece quello che va salvaguardato è proprio il carattere costitutivamente incompiuto e quindi sempre parzialmente (si spera!) incompreso del presente.

Un pizzico di materialismo storico serve allo scopo, evitando comunque la pretesa di dare risposte valide una volta per tutte a problemi specifici della vicenda culturale, storico-sociale. A me piace ovviamente anche il richiamo possibile alle tesi benjaminiane sulla storia, pure per non restare irretiti dai naturali effetti di fascinazione del motivo del post (-storico...), sotto qualche sua veste, anche quelle più creative e di taglio impeccabile e insieme “insolito”, cioè sempre-nuovo. Ma qui vorrei insistere brevemente su una dinamica che ci coinvolge oggi, nel presente, e che riporta a galla, forse paradossalmente, un protagonismo del naturale in formato “storico” (certo causato da processi anche extra-naturali) che ha come suo effetto una riapertura del presente come tempo (mi verrebbe da dire, ai limiti dell'assurdo ma non ne sono certo: “tempio”) dell'imprevedibile e dunque della provocazione potenziale.

Il presente che stiamo vivendo non ci dà scampo, ci costringe a muovere, a correre alla ricerca di points de repère, meglio: a cercare ciò che permette forse di non cadere nel vuoto, in quell'abisso che si sta spalancando davanti a noi. Una volta che il vuoto viene in un qualche modo percepito, ecco che non è sufficiente tentare di riempirlo con tutte le immagini che hanno occupato e ancora occupano il nostro quotidiano e che si rivelano sempre di più come figure ossessive, come dei fantasmi. Ci si rende così conto che tali figure consumano la nostra vita. Ma non è detto che si arrivi a ragionare unicamente in questi termini, contraddistinti da un residuo di spirito critico.

La paura, la sofferenza, la visione del morire che non lascia margini e non permette di dare “ombra” a ciò che siamo/facciamo/pensiamo/diciamo, ci spingono a sopravvivere in modo negativo (spesso “selvaggio”) ma in un contesto sempre più sfilacciato e che corre il pericolo di frantumarsi, di finire. E allora le catture del vivere, quelle del dominio e del predare accanito, si fanno più frequenti e violente: sembrava, nel presente da poco passato, che tutto potesse non finire mai e invece improvvisamente qualcosa concorre all'affermazione dell'idea che sarà inevitabile la fine, che dobbiamo finirla con la pretesa che la fine non accada e che ciò non sia comunque veicolato dai consumi indiscriminati e senza soste di noi e dei nostri dintorni, anche non soltanto quelli veramente prossimi.

Bisogna in breve ritornare a desiderare il cambiamento, a volerlo, a progettare una pragmatica di fuori-uscita dallo schifo ancora – e di più oggi – dominante nella presa d'atto, anche nel presente, del carattere temporale della nostra esistenza. E' ancora il caso di ribadirlo con nettezza: bisogna farla finita con l'idea che la fine non ci sia o che debba essere – nel presente e nei modi in cui ci viene imposto di percepirla – quella definitiva. Desideriamola certamente la fine, crediamo in essa: ma che sia un passaggio, l'espressione di possibilità di transito, di vita ulteriore, di storie a venire.