19.03.2021
Letteratura e ecologia
Una nota sul libro di Carla Benedetti
Stefano Righetti

Sarà stata la pandemia, o il fatto che il tempo per riflettere da un anno a questa parte non è mancato, ma gli ultimi tempi sembrano aver fatto sorgere anche in Italia una più chiara attenzione al tema ecologico e alla distruzione climatica. Va detto che fino a pochi mesi fa a parlare di ecologia in Italia si era ancora relativamente in pochi. E anche se il lavoro scientifico su questi temi non è mai venuto meno, rimaneva (e per ora rimane) il fatto che il nostro Paese non ha mai impostato, neppure negli ultimi anni, quando la sensibilizzazione su questi problemi è aumentata anche per merito dei giovanissimi, alcuna reale politica ambientale.

Come ho avuto modo di scrivere più volte, la definizione di "sviluppo sostenibile" sembra declinarsi nel dibattito italiano in termini il più delle volte vaghi, il cui unico fine sembra quello di provare a incartare di belle parole l’intenzione che l’attuale sistema produttivo possa continuare a fare semplicemente quello che fa, facendoci credere il contrario.

Mostrare apprezzamento per i giovani che protestano per il clima e difendere allo stesso tempo l’industria della plastica o concedere il permesso per nuove trivellazioni nel mare Adriatico è una forma di coerenza politica che non credo occorra nemmeno commentare. Ma è ciò che la nostra cosiddetta "sinistra di governo" (nelle condizioni attuali un’entità a sua volta vaga, non essendo mai riuscita – quella sinistra di governo – a dare luogo ad alcun governo di sinistra) ha praticato in modo sistematico da molti anni (Ferdinando Cotugno ne ha tratteggiato un ritratto assai esauriente quanto sconfortante sul Domani del 14 marzo).

È vero però che se la ricerca, l’informazione scientifica, una parte minore degli studi filosofici e perfino antropologici o dell’arte contemporanea, hanno posto da anni la questione ambientale al centro delle loro indagini e riflessioni, sono invece ancora poche su questo tema (a eccezione del significativo lavoro di Niccolò Scaffai, Letteratura e ecologia, Carocci 2017) le riflessioni volte a analizzare la questione dal punto di vista più propriamente letterario, e di quella che siamo soliti chiamare "letteratura".

Il saggio di Carla Benedetti (La letteratura ci salverà dall’estinzione, Einaudi 2021) intende contribuire a colmare questo vuoto e a fare della letteratura (alias: della cultura umanistica per eccellenza "nonostante i tagli dei finanziamenti in questo settore dell’insegnamento e della formazione") il punto di svolta anche di una comunicazione ecologica e ambientale che sappia porsi in modo "finalmente efficace" nei confronti del pubblico e delle sue scelte.

Benedetti è una studiosa affermata, a lei dobbiamo un libro su Pasolini e Calvino tra i più significativi nell’ambito degli studi pasoliniani, e la ripresa di un possibile ruolo sociale e politico della letteratura (anche nei termini in cui lo declina Benedetti) ha certamente come riferimento lo stesso magistero di Pasolini.

Cosa voglia dire una letteratura che si incarichi del compito di sollecitare una consapevolezza ecologica, Benedetti ce lo spiega in questi termini, mettendo l’accento sul ruolo positivo che la letteratura avrebbe avuto storicamente nel potenziare il sentimento di empatia: "Alcune teorie enfatizzano il ruolo dei romanzi e di altri generi letterari nel potenziare il sentimento empatico. Secondo la filosofa Martha Nussbaum, l’immaginazione narrativa è un’‘immaginazione compassionevole’, componente importante di una posizione etica ‘altruistica’".

La letteratura come consapevolezza, o presa di coscienza emotiva su ciò che di più terribile sta per accadere all’umanità con la crisi ecologica è allora contrapposta da Benedetti ai discorsi più tecnici e razionali (siano quelli degli scienziati o della filosofia) in quanto capace (o più capace), a differenza di questi e dei toni spesso allarmistici della saggistica specializzata (ci metto anche la mia), di colpire "emotivamente" il lettore, stimolando in lui (o in lei) una risposta di tipo "morale" nei confronti della crisi ecologica che stiamo vivendo.

Siccome ho fatto di questo il principio di alcuni miei testi non posso che condividere l’assunto da cui muove la riflessione di Benedetti, quando indica nella crisi ambientale un problema non tanto tecnico ma innanzitutto culturale: "le strutture economiche e di potere oggi dominanti non sono le sole a ostacolare un’azione proporzionale al rischio di estinzione che la specie umana sta correndo. Ci sono anche le strutture di pensiero che si sono calcificate nei saperi moderni, compresi quelli umanistici".

Che il problema sia espressamente culturale, prima ancora che politico o tecnico, è tanto evidente quanto difficile da far accettare, dal momento che il mondo che è stato edificato dalla fine della seconda guerra mondiale in poi è un mondo che ha trasformato i vecchi saperi e la precedente cultura (Pasolini) per ridefinirli, nuovamente declinati, all’interno di un orizzonte di valori completamente diverso, se non contraddittorio con quello precedente.

Il punto critico è quindi qui: riuscire a disarticolare le narrazioni di progresso e di sviluppo, connesse ai nostri modi di vivere e di essere (l’emancipazione dai modelli repressivi del passato o da culture fondamentalmente chiuse), dal modello sociale (consumista e produttivo, nonché spietatamente performativo) in cui quell’emancipazione ha potuto infine identificarsi. L’affermazione di una diversa idea di progresso era (o avrebbe dovuto essere) il compito della sinistra, se la sinistra non si fosse invece appiattita a confermare a sua volta quella narrazione del progresso, sposandone la declinazione economica e sociale com’è purtroppo avvenuto in questi ultimi decenni.

Benedetti ha quindi perfettamente ragione nel rimproverare a questo riguardo la cultura moderna.

Ma, come abbiamo detto, la sua critica si concentra soprattutto sulla cultura letteraria, arrivando ad analizzare anche la produzione contemporanea che ha assunto come proprio tema la catastrofe ambientale. Se la letteratura ha storicamente il pregio, in molte sue espressioni, di averci già posto di fronte alla necessità di immaginare l’inevitabile catastrofe e la fine della specie, quella che si è specializzata sull’attuale crisi ecologica commette tuttavia l’errore, secondo Benedetti, di volersi porre come l’alter ego letterario del discorso scientifico. Ha certamente il merito di mostrarci il pericolo che ci minaccia, ma continua a fare "leva su un solo sentimento, lo spavento per la catastrofe che ci aspetta – che di per sé può portare all’azione, ma anche alla paralisi".

È per ovviare a questo pericolo che Benedetti si appella alla capacità della letteratura di sollecitare in noi, oltre ai sentimenti negativi della paura, anche sentimenti che sono in grado di "accendere [...] l’immaginazione" in termini positivi. A patto che la letteratura non si limiti "a fare dell’emergenza ambientale un semplice contenuto o tema, lasciando inalterati gli schemi concettuali dominanti e le strutture più profonde".

Questa capacità positiva della letteratura starebbe per Bendetti nella possibilità, che è propria della letteratura di riuscire a collegare, attraverso l’emozione e il sentimento, esistenze tra loro anche lontanissime nel tempo. Anche se va detto che in molte sue esperienze contemporanee, al pari di quelle artistiche, questa capacità la letteratura l’ha invece rifiutata, e questo è forse il vero tema teorico di fondo del libro di Benedetti.

La possibilità che la lettura di un verso di ieri possa suscitare in noi lo stesso sentimento oggi, a distanza di secoli o di millenni, è invece la prova che la letteratura ha, per Benedetti, la capacità di "stimolare" cambiamenti, aperture di pensiero e di immaginazione, molto al di là dell’occasione storica che ne ha determinato la sua scrittura. O di aprire nella percezione del contingente, grazie all’emozione che è possibile provare in rapporto a un messaggio che giunge a noi da un tempo ormai perduto, un altro sentire.

Tutto il discorso di Benedetti ruota intorno a questo assunto espressamente temporale, che rende conto sia della capacità di suscitare emozioni, al di là del momento storico in cui ogni opera ha preso voce, e sia del fatto che questa vocazione temporale si sarebbe poi sempre espressa nella letteratura, anche a livello tematico, come immaginazione e predizione del futuro.

Il che vale in modo particolare per la letteratura che si è posta il tema della fine e della scomparsa della specie. Anche in questo caso, però, Bendetti nota, molto giustamente, come la condizione attuale implichi la necessità di superare questa modalità semplicemente predittiva di certa letteratura ‘della fine’.

Il fatto che "se da secoli la fine della specie è stata già pensata e immaginata, è anche vero che ammetterla in un futuro indeterminato è assai diverso dal percepirla come una possibilità imminente, come un rischio concreto che pende su di noi e sulle generazioni dei nostri figli e nipoti. Ciò che vacilla in noi uomini di oggi, come negli uditori di Noè, non è tanto l’idea dell’eternità della specie umana, ma la convinzione di avere dei posteri, presupposto irriflesso di ogni nostro agire".

Eppure, se possiamo fare un appunto alla pur ricca analisi di Benedetti (che ha certamente il merito di aprire un dibattito non banale all’interno della riflessione letteraria) è che in questa vertigine temporale il sentimento positivo che il modello letterario auspicato dall’autrice dovrebbe suscitare nei lettori non sembra trovare, nei termini in cui è posto, alcun elemento spaziale (alcuna presenza materiale e vivente) su cui convergere, ma è invece costretto (nei termini che sembrano propri di un’estetica del sublime) a collegare il sentimento suscitato dalla lettura di una certa tradizione letteraria a un futuro che rimane puramente immaginario, in funzione del quale il lettore dovrebbe però definire il cambiamento del proprio atteggiamento culturale.

Invece che una preoccupazione per la vita attuale, per la sua materiale presenza, il salto temporale che Benedetti auspica, e che la letteratura renderebbe possibile, è quello di un sentimento di preoccupazione per il mondo a-venire dei "non ancora". Ma per quanto il riferimento ai "non ancora" possa trovare un significato nella stessa tradizione letteraria (il tema dei posteri), nondimeno questa proiezione temporale, in sé suggestiva, rischia di dare al discorso ecologico di Benedetti una dimensione piuttosto astratta.

Non dovremmo piuttosto ridiscendere dalla linea del tempo, sospendere il modello di un rinvio continuo all’oltre e all’al di là (su cui la dimensione moderna ha sviluppato peraltro il proprio modello produttivo), e tornare a quel suolo materiale in cui si esprime sempre il dolore, ma anche la possibilità della cura, o del cambio di paradigma? Non è in fondo questo che la letteratura permette, come Benedetti peraltro sottolinea a sua volta: l’annullamento dell’oltre e dell’al di là che condensa il tempo, non in una semplice evocazione del non-più o del non-ancora, ma nella dimensione del presente? A questo libro dobbiamo certamente molte nuove questioni.