08.05.2021
Nella raccolta intitolata Conversazioni con il vento volatore Gianni Celati descrive la letteratura come “accumulo di roba sparsa, trovata per strada o sognata di notte”, come un incontro/scontro con quell’inatteso che lascia filare i mondi in un’esperienza piuttosto strana e paradossale e che mette in crisi i normali/normati quadri di riferimento e di ricognizione. L’arte del narrare somiglia all’esperienza della passeggiata disinteressata, è un’arte dell’“andare a vanvera” per lasciare che i pensieri prendano finalmente aria e si affastellino a contatto con le cose in cui inciampano – con la “qualsiasità” della vita che comunque trattiene l’imprevedibile nelle sue incrinature.
Contro lo “sfondo pubblicitario dello scrivere” e il “fare letteratura in modo serio e professionale”, quei procedimenti che elevano la norma a rappresentazione ideale in cui riconoscersi, Celati si dà alla fuga esaltando quei “pezzi di roba sparsa” da cui ancora emergono immagini e pensieri non addomesticati, non addomesticabili dalle richieste dell’editoria interessata al profitto. Ma l’aspetto più interessante mi sembra la rivelazione, in queste pagine, dello scrittore come un essere mai unitario e compatto: costitutivamente frammentato, sparpagliato, fatto di crepe. Contro i “fanatici dell’auto-percezione” e “dell’auto-coscienza” e contro le mitologie dell’“uomo tutto d’un pezzo”, concezioni tipiche dell’individualismo contemporaneo, Celati suggerisce di cogliere i segni extra-individuali e le variazioni di un soggetto colto come “numeroso” e fantasticante per inclinazione “naturale”. Rispetto alla convenzionalità della predilezione della letteratura per il romanzo costituito di “trame, storie, brame” Celati segue la via della discontinuità e dell’errore, dell’errore come “aria stessa della vita” e come ventosità che spinge verso imprese a volte pure bislacche e spaventose.
Superando l’ideale di una “tematica elettiva”, ogni aspetto della vita quotidiana è elevato alla “dignità” di essere raccontato: come gli sterminati paesaggi che Celati incontra in un progetto con il fotografo Luigi Ghirri. C’è un incantamento anche nei/dei paesaggi più desolati e meno frequentati, in tutti quei luoghi trascurati dalla letteratura ufficiale. E questi “spazi altri” consentono di sentire/pensare di nuovo al modo in cui incessantemente l’imprevedibile si intreccia con l’ordinario.
In un momento storico in cui le fondamenta dell’esperienza sono precipitate e questa “inabilità” di narrare viene mascherata con la tendenza sempre più crescente e sempre più fragile di una “letteratura dell’impegno”, Celati ci propone di fare i conti con ciò che realmente non si lascia ridurre alla coerenza di una storia convenzionale, alla selezione di spazi ufficiali, alla restituzione “esatta” della realtà. La “qualsiasità” che racconta Celati è essenzialmente ferita, frammentata; può forse qui valere una suggestiva frase di P. Valéry: “sotto il nudo c’è lo scorticato”. La nudità della vita nasconde delle lacerazioni ed è proprio in quei punti più esposti della pelle che si inscrive l’evento eccezionale dell’impossibile.
L’erramento, come assecondamento dell’errore e come andirivieni distratto del bighellone, lascia imbattere proprio in ciò che non può essere cercato: la vita nella sua pienezza, come materia fluida che scorre da se stessa. L’arte del narrare diviene così una esperienza irrimediabilmente paradossale: la resa “documentaria” della realtà porta i segni della sua stessa trasformabilità. Ciò che si documenta è proprio ciò su cui gli occhi e i pensieri talvolta si ri/posano ciecamente: l’inesauribile imprevedibilità del quotidiano. C’è bisogno forse che oggi la letteratura si avventuri, attraverso gli spazi abituali, oltre la visione abituale degli spazi. Il risultato può essere quell’“accumulo di roba sparsa” dove ancora si possono fare incontri di ogni sorta, tenendo sempre a mente che ognuno di noi è una solitudine affollata in una geografia dell’inaspettato.