L'esperienza: di nuovo?
Ubaldo Fadini

10.04.2021

Autorità e loquacità stanno di nuovo passando attraverso un filtro inesorabile, che non è però quello che frantumò il quadro ordinato della società di inizio XX secolo, vale a dire la grande guerra imperialista. Certamente abbiamo sempre di più a che fare oggi, nella contingenza pandemica, con l'accumularsi di rovine di diversa consistenza: a livello psicologico, sociale, economico, politico ecc., ed è in questo senso che provo a delineare una sorta di parallelismo, guidato dalla lezione teorica di grande sensibilità rintracciabile nei testi di Walter Beniamin, soprattutto a cavallo tra gli anni 20 e gli anni 30 del secolo scorso, tra quel momento storico e ciò che ci stiamo ritrovando a vivere, pur nella consapevolezza delle distanze e delle differenze di non poco conto.

Che cosa mi interessa, in particolare, di quel Benjamin? Lo sguardo non può che essere catturato dall'idea della povertà di esperienza, da qualcosa che in precedenza risultava inimmaginabile in un quadro d'epoca considerato definito/definitivo e ben raffigurato fino a poco tempo fa dalla dogmatica neoliberale con il suo infaticabile rilancio del primato del sempre-uguale (della merce) e della mistica del mercato. Scriveva infatti il filosofo berlinese e mi sia perdonata la lunga citazione, comunque essenziale e straordinariamente “viva”: “L'esperienza è in ribasso, e questo in una generazione che ha fatto tra il 1914 e il 1918 una delle più colossali esperienze della storia del mondo.

Forse questo non è così bizzarro come sembra. Non si poteva osservare, già allora, come la gente tornasse ammutolita dal campo di battaglia? Non più ricca, più povera di esperienza comunicabile. Quello che poi, dieci anni dopo, è sfociato nella marea di libri di guerra era tutt'altro che un'esperienza che dalla bocca fluttua verso l'orecchio, no, non era una cosa bizzarra. Perché mai esperienze di accurate menzogne erano state smentite come quelle strategiche dalla guerra di posizione, quelle economiche dall'inflazione, quelle corporali dalla fame, quelle etiche dai potenti.

Una generazione che era andata a scuola ancora col tram a cavallo si trovò all'aria aperta, in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato se non le nuvole e al centro, in un campo di forza di flussi distruttivi ed esplosioni, il minuscolo, decrepito corpo umano” (W. B., Esperienza e povertà, in Scritti politici 1, Editori Internazionali Riuniti, Roma, 2011, pp.253-254). Cosa riprendere/tralasciare di questo passo così significativo, in maniera senz'altro strumentale e con un pizzico di cattiva coscienza?

Parto dalla “marea di libri”: si sta già manifestando, in tempo reale e senza che l'effetto della storicizzazione del naturale (nel doppio senso del genitivo) si sia consolidato. Altro che “dieci anni dopo”! La qualificazione iper-comunicativa del nostro sistema sociale ha dato una prova immediata di sé, della sua portata costitutiva rispetto a tutto quello che si muove (anche stando apparentemente, ma non solo, fermo). Dal quotidiano rinserrato e restituito beffardamente come “smart”, nella sua valenza comunque produttiva, si preleva sempre di più e senza freni valore, ciò che concorre/serve al bene-essere dei soliti noti (pochi e ben disposti tuttavia
a dinamiche rapide di predazione).

Le “esperienze di accurate menzogne” traballano al momento, quelle del quadro ideologico dominante e dei suoi supporti terribilmente concreti: in fondo, non sono quelle enucleate, almeno in parte, da Benjamin e la lista dovrebbe essere riformulata e
decisamente allargata ma sempre si tratta però di esperienze rese fragili e infine vacue, come quelle economiche o “etiche”. Centrale resta la figura, in ogni caso, del “minuscolo, decrepito corpo umano”, allora investito da un “impetuoso dispiegamento della tecnica” (rispetto al quale avanzano oggi gli stilemi, quasi in forma di compensazione, della robotica di accompagnamento e della intelligenza artificiale “emotivamente” disposta... e altro ancora...) che non faceva che esprimere neppure troppo paradossalmente “una indigenza di nuova specie”, quella abbattutasi improvvisamente sugli esseri umani.

E' rispetto a tale nuova indigenza che Benjamin osserva il concretizzarsi, come “rovescio di medaglia”, di una inaspettata “soffocante ricchezza di idee”, di taglio fortemente ideologico e con un valore di “galvanizzazione” piuttosto che di “revival genuino”. Ecco il punto che a me interessa: come si concretizzerà (e forse inizia già a manifestarsi) tale “soffocante ricchezza”? Quali idee affioreranno per ri-animare un soggetto portato ai limiti di una condizione catatonica?

Si sa che Benjamin ricorda, in tale prospettiva, il “revival di astrologia e sapienza Yoga, Christian Science e chiromanzia, vegeterianismo e gnosi, scolastica e spiritismo”: è una lista ancora attuale e il compito sarebbe appunto quello di ampliarla e di lasciarla sempre aperta. E allora: andiamo a caccia delle possibili nuove forme di esperienza che fanno capolino, che si presentano sotto veste di gavalnizzazione eventuale, rivolte a non lasciare più di tanto trasparire la povertà d'esperienza del soggetto contemporaneo, in dirittura forse post-pandemica, e predisposte, così facendo, a rendere particolarmente incisive le modalità di raggiro, di simulazione, ciò che in fondo le destina a tradire senza soste le stesse speranze in esse riposte.

Di fronte alla povertà crescente di esperienza non si deve arretrare. Questa è la lezione ancora utile di Benjamin. Non bisogna temere di affermare la propria povertà, a livello privato, pubblico e ormai pure di specie. Si ripresenta una “forma di barbarie”, è proprio così, e la nostra realtà odierna, di noi “barbari”, va assunta senza esitazioni come figura di soggettività che può spingersi a “cominciare daccapo”, a “cavarsela con poco”, a “non guardare né a destra né a sinistra”, a fare “piazza pulita”, per poter tentare di anticipare – distruttivamente e per la ri/costruzione – l'intraprendenza della natura storicizzata e accompagnarla ragionevolmente nella sua produzione di rovine: da ripresentare prima del suo consegnarsi sotto tali forme, appunto di rovine, sapendole però, a loro volta, storicamente parziali.