L'effimero e il suo "doppio": tempi, spazi, corpi di danza
Orsola Rignani

29.08.2022

Breve, momentaneo, temporaneo, passeggero, precario, fragile, labile sono aggettivi che le attuali contingenze pandemiche, ecologiche, climatiche, belliche, politiche, economiche, sociali ci hanno abituato a impiegare ormai quasi compulsivamente e indiscriminatamente per parlare dei minimi come dei massimi sistemi. Se stabilire una volta per tutte se è ‘la funzione che crea l’organo’ o è l’‘organo che crea la funzione’ tutto sommato resta ancora una questione di lana caprina, è possibile almeno cogliere/focalizzare la dimensione relazionale inter-implicativa e per così dire agglutinante del ‘fenomeno’.

Ossia, per dirlo in modo più esplicito: al di fuori del terreno minato delle indagini eziologiche, l’attenzione tende verso la complessiva inter-implicazione/agglutinazione di breve, momentaneo, temporaneo, passeggero, precario, fragile, labile, sinonimi per così dire a loro volta inter-implicati, con/nell’effimero. Il quale, purtroppo, a causa appunto di questa sua rinnovata popolarità, finisce per essere ‘vittima’ di retoriche e distorsioni celebrative, assolutizzanti, oppure demonizzatrici, consolatorie, esorcizzatrici, escapiste ecc.; mentre invece merita, come mi sembra, una riconsiderazione nella sua letteralità di epì heméra (per un giorno) che può avvenire attraverso una sorta di suo ‘doppio’, non proprio mainstream ma comunque suggestivo e forse anche efficace, come è quello artistico della danza.

Se tuttavia questo, cioè il fatto che l’effimero sia condizione di possibilità/anima/altra faccia della danza stessa così come di molte altre espressioni artistiche antichissime e anche assai recenti (è degli ultimi decenni la straordinaria proliferazione di forme di arte effimera), è abbastanza intuitivo (la danza non sarebbe tale se fosse ‘fissa’ o perfettamente reversibile/ripetibile) e quindi forse non richiede molte parole, vale invece la pena di soffermarsi un po’ di più a cercare di vedere quali striature/implicazioni dell’effimero stesso la danza-effimero veicola e/o produce.

Le concrezioni nevralgiche che quest’ultima mi sembra coinvolgere e permeare, in una prospettiva di ri-conoscimento/ri-scoperta/consapevolizzazione, sono il tempo, lo spazio e il corpo, evidentemente inter-implicati. Tale coinvolgimento/permeazione ha luogo tramite e nell’ambito di un processo di slittamento dalla dimensione dall’essere a quella del fare-essere e della possibilità, di epochizzazione (sospensione di spazio e tempo), nonché di ‘sottrazione’ (dis-appartenenza, de-specializzazione, in-utilità). Il che significa segnatamente che la danza-effimero è evanescente, impermanente, potenziale, non-utile, non esiste né prima né dopo, avviene/accade qui e ora, ma, appunto nello scomparire, nel dis-, lascia una traccia, in una tensione dinamica tra oblio e riconoscimento.

Espressioni efficaci di questo sono l’immagine del danzatore-semaforo elaborata da Michel Serres e l’affermazione, sempre di Serres, che più danzo meno sono me (cfr. M. Serres, Genèse, Grasset, Paris 1982, p. 73), le quali additano l’idea che la danza-effimero sia veicolo dei ‘segni’ del mondo, freccia che indica la continuità dell’umano con quest’ultimo, e, al tempo stesso, condizione che rende possibile il riconoscimento delle potenzialità del corpo. Va precisato al proposito che ciò che innerva queste posizioni serresiane è il tema dello zero come elemento neutro, fattore pressoché nullo, che però rende possibile il buon funzionamento di un’operazione; la x, in sé neutra, bianca, che rimuove la fissità in una posizione e apre a tutte, in una prospettiva di toti-potenzialità (cfr. M. Serres, L’Hermaphrodite. Sarrasine sculpteur, Flammarion, Paris 1987). La danza, quindi, corrisponde allo zero stesso, a quella x che nella sua neutralità, ossia possibilità, in-definizione, de-differenziazione, de-localizzazione, dis-appartenenza, fluidifica le de-finizioni e le localizzazioni, lima ed elide le specializzazioni, schiude il ventaglio della temporalità, disattivando l’ontologia dell’essere e promuovendo un’ontologia del possibile, della capacità e della relazione.

In altre parole, la danza resta in certo senso fuori dal tempo e dallo spazio, eppure li fa cogliere nella loro ‘molteplicità’, così come scopre il corpo e lo inventa, lanciandolo verso posizioni, movimenti, torsioni, tensioni, salti e gesti improbabili, inattesi e nuovi.

Quanto al tempo, infatti, la danza per così dire lo assolutizza (il tempo è la condizione di possibilità dell’effimero!) e parimenti lo epochizza, lo mette in parentesi: essa in effetti è tale perché è nel tempo in divenire (assoluto) e parimenti fa come se non ci fosse un prima e un dopo; e con ciò favorisce la scoperta dell’istante, della durata e dell’irreversibilità del tempo, ossia appunto della ‘molteplicità’ del tempo stesso.

Analogo è il rapporto con lo spazio: la danza-effimero fa originariamente e inevitabilmente i conti con uno spazio esteso e misurabile, che però è da essa in certo modo permeato, filtrato e metamorfizzato in senso qualitativo-topologico-elastico, così da farne s-coprire la ‘plurivocità’.

Forse ancora più significativo è infine il coinvolgimento del corpo (ciò che danza), e a questo proposito l’ultima parola è ancora quella di Serres quando afferma che la danza proietta il corpo stesso verso un repertorio di condotte, inutili alle prestazioni usuali (camminata, corsa ecc.) e alle funzioni vitali, ma utili in caso di eventi straordinari o pericolosi (cfr. M. Serres, L’Incandescent, Le Pommier, Paris 2003), cioè, in poche parole, gli conferisce l’adattabilità, gli permette di andare in tutti i sensi, di aderire al mondo, di potere il mondo, di inserirsi nella danza del mondo e di continuarla a sua volta. Vale a dire che la danza, con questo estendere e dislocare i limiti del corpo, lo riconosce nella sua (toti-)potenzialità, nella sua eccedenza e nella sua continuità col mondo e con ciò rende consapevole l’uomo della necessità di uscire, come auspica la costellazione postumana, dall’idea di natura/essenza/fissità umana, per ri-scoprirsi nella relazionalità, de-localizzazione, non-appartenenza o meglio co-appartenenza, ibridazione col mondo.

La riconsiderazione dell’effimero come epì heméra (con le suddette qualificazioni), pensandolo attraverso un ‘doppio’ come la danza, può, in conclusione, essere/suscitare/favorire un atto di amor vitae/amor fati/amor mundi nel senso di una (ri)scoperta/consapevolizzazione del corpo, dell’umano, dello spazio, del tempo in una dimensione di mortalità vitale e vitalità mortale, di relatività, di plurivocità, di fluidità, di relazionalità, di dinamismo nel e col mondo. Perché, come dice Serres, non comprendiamo se non entriamo nella danza dei mélanges del mondo (cfr. M. Serres, Variations sur le corps, Le Pommier, Paris 1999, p. 51).