Tratto dalla
Prefazione
L’eco-marxismo di James O’Connor
James O’Connor (1930-2017) è stato un influente economista statunitense, il cui lavoro teorico e politico risulta fondamentale nella formazione di quella che oggi appare come una delle più prolifiche e promettenti correnti del pensiero critico: l’eco-marxismo. Nell’introdurre i due contributi qui raccolti, originariamente apparsi sulla rivista “Capitalism Nature Socialism. A Journal of Socialist Ecology” (cns) e successivamente ripubblicati con altri interventi nel volume Natural Causes. Essays in Ecological Marxism1, tradotto in numerose lingue – ma non in italiano –, vorremmo fornire alcuni elementi di contesto utili alla comprensione dell’opera di uno dei più importante intellettuali eco-marxisti.
1 James O’Connor, Natural Causes. Essays in Ecological Marxism, The Guilford Press, New York-London 1998.
Interrogare il marxismo a partire dalle lotte:O’Connor intellettuale militante
L’eco-marxismo è un campo di ricerca vasto ed eterogeneo, attraversato da un vivace dibattito, ma anche disseminato di conflitti e contrapposizioni teoriche a volte molto aspre1. Eppure le riflessioni di James O’Connor hanno goduto di un apprezzamento trasversale anche quando sono state giudicate “superate”, facendone uno dei padri nobili dell’eco-marxismo e rendendo il suo contributo un classico con cui è d’obbligo misurarsi per chiunque voglia cimentarsi con l’ecologia politica di stampo marxista.
Le sue analisi sono infatti discusse non solo nei contesti americano ed europeo, ma a ogni latitudine – da segnalare un recente interesse in Cina2.
Nella ricostruzione storica del pensiero eco-socialista operata da John Bellamy Foster e Paul Burkett, O’Connor occupa una posizione di rilievo in quella che viene definita la “prima fase dell’eco-socialismo”3.
Tale ricostruzione può essere riassunta in questo modo: già dagli anni Cinquanta gli scienziati cominciano a criticare gli effetti dei test nucleari, le proteste poi si estendono all’uso dei pesticidi, come testimoniato dalla pubblicazione, nel 1962, di Silent Spring di Rachel Carson, una sorta di manifesto precursore dei movimenti ambientalisti la cui eco giunge fino ai giorni nostri4.
Con il proliferare di criticità ambientali di varia natura, e di significative mobilitazioni sociali, tra gli anni Sessanta e Ottanta del xx secolo prende forma una “fase prefigurativa”, cioè una prospettiva ecologica di matrice marxista, in molti casi mediata da scienziati di orientamento marxista, tra i quali vanno ricordati perlomeno Barry Commoner, Richard Levins e Richard Lewontin. In questa fase, suggeriscono Foster e Burkett, ecologismo e marxismo non paiono necessariamente contraddittori, anzi: la loro convergenza avviene quasi per inerzia, senza necessità di giustificazione.
A mutare lo scenario interviene uno scritto fondamentale, che segna nel profondo una generazione di teorici e militanti marxisti. Si tratta della tesi di dottorato di Alfred Schmidt, Il concetto di natura in Marx del 1962, pubblicata in inglese nel 1971 e in italiano nel 1969.
Schmidt, influenzato sia dal suo relatore, Theodor W. Adorno, sia da Max Horkheimer, rifiuta la dialettica della natura seguendo la tradizione del marxismo Occidentale avviata da Gyorgy Lukács e sostenendo che nel progetto illuminista del dominio sulla natura sia caduto anche Marx5.
Ancor più incisivo nella prima fase dell’eco-socialismo, sempre secondo Foster e Burkett, è l’emergere negli anni Settanta e Ottanta della cosiddetta Green Theory (una sorta di apparato ideologico dell’ambientalismo middle-class), assai influenzata dal biocentrismo della Deep Ecology e responsabile dell’ampia diffusione del neo-malthusianesimo6.
Questo sviluppo teorico opererebbe uno slittamento discorsivo a causa del quale marxismo ed ecologia appaiono ora come opposti, quando non inconciliabili. Al primo stadio dell’eco-socialismo, per Foster e Burkett, appartengono dunque quegli autori e quelle autrici di orientamento marxista che avrebbero accettato tale piano di separazione, sforzandosi altresì di ricongiungere il pensiero verde al marxismo – spesso però tacciando quest’ultimo di intrinseco produttivismo o di “prometeismo”.
Altre personalità di spicco, in questo gruppo di marxisti critici rispetto a Marx, sono André Gorz7, Joan Martinez-Alier8, Carolyn Merchant9.
Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei 2000, però, grazie in primo luogo al lavoro degli stessi Burkett10 e Foster11, a questa prima fase dell’eco-socialismo sarebbe succeduta una seconda, caratterizzata dalla rettifica del malinteso originario della Green Theory: nell’opera di Marx sarebbe infatti rintracciabile un ecologismo ante litteram, centrale nell’architettura complessiva della critica dell’economia politica e, soprattutto, adeguato tanto al periodo in cui fu elaborato (la seconda metà del xix secolo) quanto ai secoli successivi (pur con gli ovvi adattamenti, per lo più relativi alla nuova fenomenologia della crisi ecologica).
Non sorprende che anche un osservatore simpatetico come Andreas Malm abbia riscontrato in questo approccio tracce di “deificazione del padre”12.
Non è nostra intenzione negare, o anche solo relativizzare, la meritoria opera di riscoperta di una dimensione ambientale del pensiero marxiano (ma lo stesso potrebbe dirsi della riflessione di Engels13) messa in atto da Foster, Burkett e da altre voci appartenenti alla scuola della “frattura metabolica” (Metabolic Rift)14.
Ciò che invece ci preme sottolineare è che questo tipo di inquadramento storico della vicenda dell’eco-socialismo si concentra esclusivamente sulle strutture discorsive (a-problematicità del rapporto Marx-ecologia nella fase prefigurativa, dagli anni Cinquanta agli Ottanta, Marx vs. ecologia nella prima fase, dai Sessanta a oggi, Marx ecologista nella terza fase, dagli anni Novanta a oggi – con una quarta, e probabilmente ultima, fase “pratica” di applicazione del metodo d’analisi della frattura metabolica15), relegando in secondo piano la congiuntura politica a partire dalla quale il problema del rapporto tra marxismo ed ecologia prima si è dato e poi si è sviluppato16.
In particolare, la periodizzazione per così dire “orizzontale” di Foster e Burkett non tematizza a sufficienza il ruolo generativo del conflitto sociale rispetto alle nuove domande che è possibile porre a un archivio ricchissimo e problematico come quello marxista. Eppure non si comprendono né genesi né evoluzione del pensiero di O’Connor se si prescinde dalla sua collocazione nella temperie del ciclo di lotte che si apre con la contestazione della guerra in Vietnam, passa attraverso il 1968 e porta al primo shock petrolifero del 1973, per poi trascinarsi almeno fino alla seconda crisi energetica del 1979.
La traccia viva delle mobilitazioni – in particolare quelle contro le nocività industriali – lega implicitamente le tappe che scandiscono la riflessione di O’Connor e trova evidente espressione nella dedica del suo lavoro più fortunato, La crisi fiscale dello Stato, del 1973: “Agli operai, ai disoccupati, ai poveri, agli studenti e a tutti coloro che, con le loro lotte contro lo Stato, hanno reso possibile questo libro”17.
Ciò che ci sembra importante mettere a fuoco è come O’Connor abbia vissuto in maniera inscindibile militanza politica e lavoro scientifico. Occorre ricordare, in primo luogo, il sostegno a Cuba nel processo di stabilizzazione post-rivoluzionario (testimoniato da un volume sulle origini del socialismo cubano)18. Altrettanto dirimente fu la sua partecipazione al movimento anti-segregazionista dei Freedom Riders, nonché l’opposizione all’invasione del Vietnam con l’organizzazione delle Facoltà contro la guerra19.
Dal punto di vista della produzione scientifica, i suoi contributi sono fondamentali, particolarmente nell’ambito dell’economia politica: ormai un classico è il già richiamato La crisi fiscale dello Stato.
Meno note ma altrettanto degne di considerazione sono le successive analisi del concetto di crisi che, sintetizzando punti di vista alternativi sulle tendenze allo squilibrio economico, politico, culturale e psicologico del capitalismo americano degli anni Ottanta, si cristallizzano in due volumi: Accumulation Crisis (1986)20 e The Meaning of Crisis (1987)21.
In La crisi fiscale dello Stato si segnala la rilevanza strutturale della spesa pubblica statunitense per la crescita del settore monopolistico, nonché l’insostenibilità, sul medio-lungo periodo, di un modello di sviluppo fondato tanto sull’accumulazione del capitale sociale quanto sull’aumento delle spese sociali.
Una disamina puntuale delle tesi di questo volume ci porterebbe troppo lontano. Occorre tuttavia segnalare che in esso si trova un passaggio, di norma poco discusso, che anticipa la tesi sulla seconda contraddizione: si tratta dell’appendice al capitolo sesto22, intitolata “Le spese sociali dell’inquinamento dell’ambiente”.
Oltre alla nota contraddizione tra capitale e lavoro, in questo breve estratto O’Connor prefigura l’insanabile contraddizione tra accumulazione economica e privatizzazione dei profitti, da un lato, ed esternalizzazione dei costi ecologici e loro socializzazione attraverso lo Stato, dall’altro. Vale la pena di riportare il brano per intero:
Le leggi e la persuasione morale non sono che due elementi nella soluzione del problema dell’inquinamento. Il terzo ingrediente essenziale è il denaro governativo [...] Nessuna grande azienda agricola può permettersi da sola di pagare le spese per la protezione del suolo, delle acque e della vita vegetale, animale e umana. Nessuna società automobilistica può sobbarcarsi da sola i costi della produzione di veicoli non inquinanti. Nessuna municipalità può concedersi il lusso di costruire adeguati impianti per il trattamento dei rifiuti. Nessuna compagnia aerea può affrontare le spese connesse con l’inquinamento da rumore o con la modernizzazione dei servizi e degli impianti per il controllo del traffico aereo. Anzi, industrie fortemente inquinanti come le cartiere, la chimica, i metalli primari, ecc., non sono in grado di finanziare impianti adeguati per trattare o eliminare gli scarichi senza un aiuto finanziario dall’esterno in una forma o in un’altra23.
O’Connor posa così la prima pietra dell’edificazione del pensiero eco-marxista, aprendo lo spazio concettuale per una critica ecologica dell’economia politica. Un lavoro che riprenderà sul finire degli anni Ottanta nelle pagine di cns e che proseguirà fino al 2003, anno in cui ne lasciò la direzione.
L’idea di fondare una rivista dedicata all’ecologia socialista era nata a partire da un seminario nell’autunno del 1988, intitolato Capitalism and Nature e animato da militanti ecologisti, ricercatori e studiosi. La direzione di cns24, ancora oggi punto di riferimento internazionale dell’elaborazione teorica dell’ecologia politica di stampo marxista25, fu assunta congiuntamente da Barbara Laurence e O’Connor.
Nel corso di questo seminario emergono due questioni imprescindibili: in primo luogo la mancanza, fino a quel momento, di una teoria (neo)marxista che avesse organicamente connesso crisi economica e crisi ecologica; in secondo luogo, la mancanza, fino a quel momento, di un’elaborazione critica che avesse dialetticamente articolato storia e natura, collocandosi nell’interfaccia tra scienze naturali e sociali26.