Le istituzioni di Foucault
Filippo Domenicali

16.04.2021

Si è molto discusso, si continua a discutere – e credo che si continuerà a farlo anche in futuro – del rapporto di Foucault con le “istituzioni”. L'opinione prevalente, ribadita da Roberto Esposito in una serie di pubblicazioni recenti, è che nelle sue opere si possa reperire sempre e soltanto una concezione molto classica dell'istituzione, concepita sostanzialmente alla maniera durkheimiana – e dunque “in negativo” – come un dispositivo atto a comprimere/reprimere il potenziale creativo della “vita” di una società nelle sue diverse manifestazioni.

Esposito ha osservato che “Ciò che sembra caratterizzare l'istituzione […] è una tendenza alla conservazione di norme scaturite da equilibri sociali irrigiditi”, e che “Tale interpretazione conservativa, se non reazionaria, dell'istituzione non è assunta solo dalle filosofie antimoderne, ma anche da quelle progressiste”, infatti, “Nonostante le profonde differenze lessicali, autori diversi come Searle, Bourdieu e Foucault […] convergono in questa interpretazione conservativa dell'istituzione, intesa come ciò che, per legittimare i poteri esistenti, neutralizza le spinte innovative provenienti dalla società” (R. Esposito, Pensiero istituente, Einaudi 2020, pp. 162-163).

Così le analisi di Foucault, nonostante tutta la loro riconosciuta potenzialità ermeneutica quando si tratta di diagnosticare la deriva “biopolitica” delle nostre attuali società, d'altro lato presupporrebbero una “concezione coercitiva” e “una valutazione generalmente negativa dell'istituzione”, che di per sé non avrebbe nulla di innovativo (R. Esposito, Per un pensiero istituente, “Discipline filosofiche”, 2/2019, pp. 10-11).

Eppure, a leggere gli ultimi scritti di Foucault – e in particolare le conferenze che a Toronto ha dedicato al tema del Dir vero su se stessi (trad. it. Orthotes 2020) – mi pare che si potrebbe tentare di rivedere questo giudizio. (Ma bisogna dire che lo stesso Esposito nel recentissimo Istituzione [Il Mulino 2021 ha corretto parzialmente il tiro, sottolineando come “Gli ultimi scritti di Foucault sul governo di sé” sembrino orientare la biopolitica “in una direzione istituente”, p. 155. Su questo testo si veda anche U. Fadini, Un altro freno. Sul motivo dell'istituzione, su queste pagine).

Ad ogni buon conto, a Toronto, nel 1982, Foucault fornisce alcune importanti indicazioni su una sua eventuale adesione al lessico dell'istituzione – complice anche un inglese forse non padroneggiato completamente – dove questa parola fa più volte capolino per caratterizzare le attività legate alla cura di sé come, appunto, “una pratica che ha le sue istituzioni, le sue regole, i suoi metodi” (p, 72), in quanto, come ben sappiamo, nella società antica, “esistevano dei supporti istituzionali a questo zelo nei confronti di se stessi: scuole, insegnamenti privati o pubblici, conferenze, discussioni all'interno di cenacoli più o meno chiusi” (p. 46). Perciò Foucault dichiara espressamente di voler mettere in altorilievo l'esistenza “nella società pagana, nella società greco-romana dei primi due secoli, di una cura di sé molto manifesta, molto nota, molto familiare, con le sue tecniche, le sue istituzioni, la sua filosofia” (p. 235).

A un esame più approfondito, pertanto, questa società antica di cui Foucault traccia le grandi linee nei suoi ultimi lavori, sarebbe stata la sede di tutto un proliferare di micro-istituzioni della cura di sé. Foucault osserva che: “Ciò che è notevole in questa pratica dell'anima, è la molteplicità delle relazioni sociali che possono servirle da supporto”: organizzazioni scolastiche (la scuola di Epitteto), consiglieri privati (il caso di Demetrio), direttori di coscienza (Seneca) e così via, altrettante situazioni in cui la cura di sé si presenta come una funzione sociale riconosciuta – cioè istituita (pensiamo al senso “statutario” dell'amicizia antica) – che “viene a doppiare e ad animare tutto un insieme di altri rapporti: rapporti famigliari […] rapporti di protezione […] rapporti di amicizia […] rapporti con un personaggio altolocato” ecc. Insomma, tutto un reticolo di micro-istituzioni diffuse, disseminate, polimorfe, plurali...

Se ammettiamo dunque che sia possibile individuare, negli ultimi scritti di Foucault, una riflessione esplicita e una problematizzazione specifica dedicata a queste micro-istituzioni della cura di sé, dovremmo subito aggiungere che anche nella sua attività degli anni Settanta, più impegnata politicamente, fatichiamo a intravedere i lineamenti una concezione “classicamente” anti-istituzionale, e dunque “reazionaria”. Certo, la stessa scelta dell'oggetto, volta a privilegiare istituzioni “totali” come il manicomio, l'ospedale e la prigione, non era senz'altro la più adatta per individuare elementi di liberazione in questi spazi duramente eterotopici.

Eppure, se pensiamo alle modalità con cui Foucault ha praticato la sua resistenza attiva, se pensiamo, per esempio, alle sue lotte attorno alle prigioni, che cosa troviamo? Il Gip (Groupe d'Informations sur les Prisons) – e cioè una singolare contro-istituzione che aveva anch'essa una sua organizzazione (una sede, degli avvocati, dei portavoce ecc.) per quanto informale (cfr. S. Vaccaro, Biopolitica e disciplina. Michel Foucault e l'esperienza del Gip, Mimesis 2005).

E poi, più tardi, verso la fine degli anni Settanta, quando Foucault si avvicina alle posizioni di Pierre Rosanvallon e del sindacato (la CFGT), teorizzando la posizione dell'intellettuale nei termini di un “travailler-avec”, di un “lavorare-con” le istituzioni alternative, progressiste, senza assumere direttamente cariche dirigenziali o attribuirsi la funzione dell'ideologo (cfr. D. Eribon, Michel Foucault, Feltrinelli 2021), non ci troviamo ancora una volta di fronte a una problematizzazione più complessa del semplice e banale rifiuto? Una situazione cioè in cui le istituzioni (e la legge) hanno ancora un ruolo da svolgere (benché decentrato, minoritario, certo...) all'interno dei nuovi dispositivi così come nei fronti di resistenza “trasversali” che si oppongono al “governo delle vite”?

Insomma, pur apprezzando le ultime ricerche di Esposito dedicate al tema dell'istituzione, in quanto contribuiscono efficacemente a cartografare un territorio dai confini incerti (filosofia, sociologia, antropologia, diritto...) con uno stile chiaro e una precisa prospettiva ermeneutica, che ha già dato ottima prova di sé e si annuncia molto promettente (l'incontro biopolitica-istituzioni...), mi pare che “le istituzioni di Foucault” abbiano ancora molto da dire.