Le avventure della totalità. Alcune considerazioni su James Lovelock (1919-2022)
Paolo Missiroli

06.08.2022

James Lovelock, dopo aver compiuto 103 anni, si è infine ricongiunto alla sua Gaia. Personaggio ambiguo, di cui è difficile tracciare un profilo univoco. Da un lato autore di testi all’origine delle letture più radicali della attuale situazione planetaria nonché di alcuni approcci mistico-primitivistici a quest’ultima, dall’altro dipendente per molti anni della NASA; padre (insieme a Lynn Margulis) della Scienza del Sistema Terra, che è oggigiorno il modo attraverso cui la comunità scientifica guarda al pianeta Terra come a un sistema omeostatico auto-regolato dotato di una certa potenza di agire, ma anche della teoria di Gaia, che, almeno in alcune sue declinazioni, tende a pensare la Terra come un organismo vivente, un animale.

Certo, sarebbe un errore pensare che queste ambiguità risiedano solo nelle – numerosissime – letture che sono state fatte delle ricerche del chimico britannico. Lovelock, infatti, non ha mai fatto mistero di non ritenersi un mero scienziato, nel senso tecnico del termine e scrivendo ha aperto alle letture che del suo lavoro sono state svolte. Soprattutto nella sua vecchiaia (lunghissima) egli ha cercato di intervenire nel dibattito politico delle società occidentali, naturalmente tentando di far valere fino in fondo l’idea di Gaia come chiave di lettura. È in questi interventi che si possono apprezzare fino al loro limite ultimo la difficoltà e al contempo l’infinita forza di questa prospettiva (di cui è bene ricordare come si sia reso conto, ormai un decennio fa, Bruno Latour).

Se, infatti, Lovelock ha parlato più volte di una “rivolta” di Gaia in corso, volendo indicare con questo il riequilibrio omeostatico che il Sistema Terra sta mettendo in atto a fronte di un eccesso di attività antropica, è perché nell’idea di Gaia risuona, evidentemente, l’antica idea bruniana per cui noi agiamo solo a contatto di un suolo che è vivo e che non teme nulla, essendo esso stesso la potenza primigenia all’interno della quale ogni altra possibilità può darsi. La crisi ecologica è un problema nostro, non della Terra.

Nessuno che conosca anche solo poche righe del Nolano può leggere Lovelock (e tutti i suoi “figli” teorici, gli scienziati del Sistema Terra) senza sentire riecheggiare la nozione di un “principio materiale costante ed eterno”, un’anima del mondo che è le cose stesse. Il ritorno del panteismo nella contemporaneità, a volte in forme dubbie (come quelle del cosiddetto “pensiero New Age”, ormai ricordo dei primi anni 2000), è certamente legato al lavoro di James Lovelock. Hanno un bel dire tutti i suoi critici più intransigenti: senza Lovelock, nessun pensiero ecologico dell’Antropocene, cioè nessuna idea della nostra epoca geologica come momento del contatto con un suolo che è vivo e la cui potenza supera di molte misure quella umana, essendo in realtà su un piano interamente altro; è solo dentro a questo infinito di profondità che si danno tutte le altre potenze.

La cosa andrà approfondita in altra sede, ma non sarebbe sbagliato sostenere che è Lovelock, probabilmente senza saperlo e con l’aiuto di Margulis, che ha aperto la nostra contemporaneità a una lettura diversa rispetto alle solite mostruosità prometeiche che sognano un pianeta disponibile nel pugno del Capitale e che ritengono la questione ecologica un affare da moralisti, in cui si tratterebbe di convincere di volta in volta degli umani ultra-potenti a essere giusti con la Terra, a non farle troppo male, perché non è giusto. È Lovelock, possiamo dire, che ci ha indicato una via Rinascimentale all’Antropocene, come momento, al contrario, della potenza della Terra. È sempre Lovelock che ci ha fatto capire che la crisi ecologica è la reazione del Sistema Terra alla nostra attività, non il suo subire passivamente quest’ultima. Chi sorride di fronte all’”umanizzazione” che l’espressione “rivolta di Gaia” porta inevitabilmente con sé è dimentico della situatezza del proprio discorso “critico-critico”.

Nessuno ha mai pensato che Gaia avesse preso la decisione sovrana di ribellarsi, ma noi non possiamo vedere integralmente la sua potenza, il suo regolarsi omeostaticamente, che attraverso questo tipo di espressioni. È per questo che senza letteratura e più in generale senza ricerche espressive non può esservi una completa consapevolezza della catastrofe ecologica: noi non possiamo non dire Gaia. Questo il secondo insegnamento della Scienza del Sistema Terra. Il suo muoversi per previsioni incerte, con margini amplissimi (l’IPCC non sa se la temperatura aumenterà di 4 o 10 gradi non perché non sa quanto inquineremo, ma non può conoscere fino in fondo come reagirà la Terra al nostro inquinamento) è dovuto precisamente a questa oscurità ultima del Pianeta. Non è un caso che nella stessa letteratura scientifica ritornino in continuazione le metafore bruniane della bestia e del mostro in riferimento alla Terra: noi ne sentiamo e vediamo il ruggito, ma essa rimane, come già insegnava Merleau-Ponty, un non-oggetto. È quanto già Schelling aveva compreso, sostenendo che l’Assoluto è Notte. È per questo che ogni ontologia orientata agli oggetti non può incontrarsi con la dimensione più fondamentale della nostra esperienza storica, cioè precisamente ciò che rende possibile la storia.

La Terra è una forza negativa, frenante, per chi vi agisce all’interno: è questa la conquista per sempre di Lovelock, è per questo gli va reso grazie, senza titubanze e senza estremismi puristi. Ci ha insegnato, insomma, che la Terra non è un potere, ma una potenza che frena.

Può lasciare stupito il lettore di quanto precede il fatto che Lovelock abbia pubblicato, qualche anno fa, una monografia intitolata Novacene, dove egli impiegava i suoi ragionamenti su Gaia in senso integralmente opposto a quanto sopra rilevato. In tale volume, infatti, Lovelock immagina l’avvento di una società planetaria interamente tecnicizzata, dove una serie di macchine non-organiche prenderanno il controllo di Gaia, ormai ridotta a mero meccanismo integralmente visibile (dunque manipolabile a piacimento). Lovelock, da scienziato (cioè soggetto situato in un contesto composto di pratiche, di saperi, di storia e di natura) diviene in Novacene profeta: egli sa che non vi è vita che sulla Terra, che quest’ultima è un mero meccanismo interamente disponibile alle intelligenze robotiche che conquisteranno il mondo entro qualche anno, vincendo la malattia, la morte e il dolore. Discorsi quasi onirici, ma che rivelano il lato nascosto della totalità che è Gaia.

È come se, di volta in volta, Lovelock seguisse le due strade che parlare di “Gaia” comporta. Entrambe inevitabili, almeno come prospettiva, entrambe da tenere ben presenti, senza per questo rifuggire una prospettiva planetaria sulla crisi ecologica. Da un lato, la strada “rinascimentale” di cui parlavamo: Gaia è una potenza, è un suolo che non si può vedere e che, tuttavia e anzi proprio per questo, ci è costitutiva. D’altro lato, Gaia in quanto totalità è una macchina, un insieme di meccanismi causa-effetto che la rendono un Globo che si può tenere in mano e si può trasformare infinitamente. È l’ambiguità inevitabile di tutti i concetti che trasportano dentro di sé il senso del tutto, una qualche forma di totalità, come le vicende di quello di “storia” o di “vita” ci hanno mostrato.

Laddove si toglie alla totalità il suo margine di invisibilità, il factum originario che essa sia l’universale ma al contempo non sia mai totalizzabile da parte di chi vi parla (cioè non possa mai trasformarsi in un oggetto interamente illuminato), il rischio ultra-positivistico (la cui declinazione politico-ecologica, oggi, si manifesta con l’eco-fascismo o la tecnocrazia neoliberale) diviene inevitabile. La storia rischia sempre di trasformarsi nel percorso progressivo e glorioso di un gruppo, una totalità senza fratture, ma è anche lo spazio entro il quale si trova il senso di una vita e la possibilità trasformativa di essa.

Attraverso la “vita” sono stati giustificati i più grandi crimini della storia dell’umanità e tuttavia cosa si può dire della catastrofe ecologica senza l’idea di “vita” (o i suoi surrogati)? Non bisogna temere questa ambiguità. Lovelock non lo ha fatto, ma non tenendola presente, non ponendosi cioè il problema del negativo fino in fondo, è caduto, in Novacene, nel lato prometeico di questa idea, nel sogno sciocco che Gaia sia una macchina. Certo, Gaia non è un Dio e forse non è nemmeno un animale nel senso che i moderni attribuiscono a questo termine. Forse, brunianamente, essa è la causa e il principio. Noi possiamo solo abitarla senza afferrarla interamente: è una totalità negativa. È con questo spirito, critico ma al contempo di profonda gratitudine, che possiamo dire addio a James Lovelock.