L'attrazione postmoderna per la fiction
Stefano Righetti

01.04.2021

La società an-estetica è la società dell’oblio, la società che tende a cancellare il ricordo e a cancellare ciò che nel ricordo chiede di essere ricordato, l’assenza che nella ripetizione diviene (e ritorna o rimane) presenza. È il motivo per cui l’atto del ricordare, quando non sia meramente episodico, implica sempre una ritualità, l’atteggiamento che ci dispone al ricordo e che richiama a noi il ‘rimosso’. Così come rituale ha dovuto essere e farsi, anche solo per donare il sollievo del dire, la seduta psicanalitica, cadenzata nell’orario, regolata nei gesti, nella postura di chi parla, di chi ascolta, ecc.

Forse non è vero che il postmoderno ha negato la storia, ma è vero che ha pensato di togliere alla storia la sua aspirazione a farsi ricerca di un senso. Di più: decretando la fine delle grandi narrazioni ha sospeso il principio che il senso di cui la storia si era incaricata riguardasse lo stesso presente e la sua prospettiva. Questa rimozione postmoderna del senso è stata in realtà un’abile sostituzione, dal momento che il futuro è rimasto per il postmoderno la dimensione in cui dovevano avverarsi tutte le aspirazioni del desiderio. La differenza è che il neo-capitalismo ha declinato il futuro nel presente della produzione, dove le aspirazioni del desiderio devono trovare l’unica soddisfazione possibile. Per cui, anche i problemi politici e sociali avrebbero avuto la loro soluzione (secondo l’aspirazione postmoderna) nello ‘sviluppo’ tecnologico a-venire, di cui il presente è già l’anticipazione e, insieme, la garanzia.

Doveva certo persistere una zona di insoddisfazione, di sofferenza e di esclusione anche nella società postmoderna, ma questa non avrebbe minato il piano di proiezione a cui la nuova visione del tempo delegava la soluzione dei problemi in termini di implementazione generale. A patto che il presente così declinato non diventasse esso stesso un problema. Il piano di proiezione poteva funzionare solo se non era messo in discussione il modello di selezione e le finalità di quello che Lyotard chiama ‘il sistema’.

Non saremmo arrivati del resto alla distruzione climatica attuale se il postmoderno avesse posto al centro della valutazione di performatività anche gli effetti del proprio modello. Purtroppo, il sistema era predisposto per selezionare le risposte migliori in grado di aumentare il potenziamento del modello stesso, tralasciandone i rischi sul piano complessivo.

Per altro verso, così come il sistema produttivo postmoderno è rimasto cieco nei confronti del proprio sistema di sviluppo (accettandolo in termini pressoché a-critici), la frase di Nietzsche per cui ‘non ci sono fatti ma solo interpretazioni’ è stata assunta per affermare l’idea che la storia fosse ormai da considerarsi solamente un prisma attraverso cui la luce cambia i contorni delle cose, finché gli accadimenti non sono più a loro volta che riflessi, condizioni la cui densità deve sciogliersi nella nebbia delle interpretazioni che li riguardano.

La conseguenza è stata di due tipi: o si è cominciato a dubitare della storia in generale, mettendo in discussione la sua verità (come il revisionismo e il depistaggio provano, secondo i rispettivi interessi, a fare con la storia contemporanea e con quella recentissima); o si è assunto il fatto che ciò che della storia può servire al sistema delle società postmoderne debba rientrare, anche questo, nel modo utilitaristico e interessato di selezionare una verità in funzione delle necessità e degli interessi in gioco. A quel punto, il relativismo è sembrato la via d’uscita da ogni narrazione di senso troppo vincolante e, in quanto tale, non più conciliabile con il funzionamento meramente tecnico del modello su cui il neo-capitalismo intendeva strutturare il presente dell’economia e delle società dei consumi.

In modo inatteso, dal momento che il problema riguarda oggi la storia umana in termini che essa non ha mai conosciuto, la crisi ecologica e quella dovuta alla pandemia (dacché questa non è che un prodotto della prima o, in ogni caso, ecologica essa stessa) sembra porre nuovamente il tema della storia come un problema di senso e di scelta, nei termini ultimativi che il relativismo postmoderno non sembra in grado di gestire. Che la domanda di senso torni oggi a interrogarci riaprendo il ‘problema’ della storia come riflessione e responsabilità di fronte agli eventi è il tema degli articoli di Manlio Iofrida e rimane al centro dell’intervento di Ubaldo Fadini su Améry e sul risentimento.

Solo l’idea che il tempo cancelli l’essere, senza che l’essere possa rivendicare alcun significato che non prenda luce dal suo essere destinato alla fine, può infatti confondere la richiesta di giustizia con una forma di vendetta e fare della storia una inutile pretesa di senso. Non è quindi un caso se per l’Heidegger lettore di Nietzsche ‘la redenzione della vendetta’ deve comportare la negazione da parte dell’uomo di ogni ‘rapporto con l’essente’ affinché egli possa declinare la propria essenza nella pura temporalità e nel destino della morte. A quel punto, i fatti della storia, le vicende umane, i torti subiti e quelli inflitti sono riportati al loro ineluttabile (e ingiudicabile) ‘così fu’, che rende inutile ogni richiesta di senso così come di giustizia (M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, Sugarco, Torino 1988, pp.140-141).

Eppure solo in astratto questa messa in scena romantica dell’uomo che rivendica la propria sorte come una scelta consapevole può essere assunta fino in fondo come una contraddizione del moderno. Quando lo è, lo è soltanto perché pretende di chiudere il cerchio del tempo alla fine della sua accelerazione, chiudendo gli occhi di fronte alla storia e decretando che, in questa riconciliazione con il tempo, nessun evento può avere più reale sostanza o valore.

Al postmoderno è dunque bastato eliminare il ricatto di senso del passato (depotenziarlo nel gioco ludico del rimando, senza che il suo ricordo potesse pretendere più a un qualche senso oltre il suo superficiale richiamo) per lanciarsi idealisticamente libero nel futuro. Forte di questa libertà, esso si è potuto accreditare come il ‘dopo’ di ogni narrazione; l’al di là della storia, appunto, una volta accertata l’incapacità della storia di articolare una qualsiasi destinazione condivisa. Quella crisi della narrazione che è stata contemporaneamente crisi dell’arte e della letteratura come ultima forma possibile dell’una e dell’altra.

Questa condizione ha modificato inevitabilmente il significato del ricordo e la sua funzione. Da elemento necessario all’elaborazione di un significato, il ricordo è stato a sua volta depotenziato in puro dato informazionale, e l’informazione è divenuta a sua volta un elemento utile all’elaborazione di finzioni narrative nelle quali, tolta di mezzo la storia e le sue pretese, o trasposte queste sul piano della fantasia, la storia poteva reinventarsi in racconto e funzionare come puro intrattenimento (fosse questo la ricostruzione romanzata dell’età romana o del medioevo o la citazione del frontone greco sulla facciata di un capannone industriale).

In questo modo si è potuto espellere dalla storia l’appello tragico che ne lasciava inesorabilmente aperto (senza redenzione possibile) il tempo e sempre attiva la presenza nel ricordo. Il postmoderno ci ha fatto credere che non avessimo più bisogno di alcuna profondità che non fosse immediatamente traducibile entro i margini immediati del suo modello di sviluppo.

Difficile non credere che questa continua auto-affermazione non sia ciò che ha impedito alla cultura postmoderna l’elaborazione del dolore che la sua corsa sulla superficie del tempo non mancava di provocare. La società an-estetica è una società fondata necessariamente sull’oblio. La società che ha fatto della rimozione il suo miglior mezzo di sopravvivenza e di sviluppo. Ai suoi abitanti è possibile vendere pistole e hamburgher pur avendo la certezza, come direbbe Šklowskij, che queste cose, nella fiction an-estetica che ha soppiantato la storia, prima o poi si incontreranno.