L'attesa della "normalità"
Stefano Righetti

27.06.2021

Potremmo provare a definire l’attuale inerzia del "sistema"? O questo verrebbe letto come un esercizio di arrendevole pessimismo? Eppure, se la pubblicità dei buoni propositi d’inizio pandemia (quelli per cui avremmo costruito, dopo la morte e i sacrifici, un mondo migliore, perfetto e più giusto) sono andati incontro al risveglio in un mondo che sembra perfino peggiore (così come ci sembra a volte peggiore, perché più insopportabile, una qualunque realtà di cui avevamo sognato di liberarci senza poterci riuscire) un motivo ci sarà.

Possiamo dirlo: l’utopia del mondo improvvisamente buono serviva soltanto a consolarci, così come le favole prima di dormire. Avevano solo la funzione di rendere meno ansiosa l’attesa. Che non era affatto l’attesa di un diverso avvenire, ma l’attesa di ciò che la pandemia aveva avuto per un momento la forza di sospendere, seppur in modo traumatico. Il risveglio nel mondo di prima ci lascia allora più spaesati che mai. O forse quella breve sospensione della normalità ci ha fatto apparire improvvisamente insopportabile ciò che l’abitudine ci rendeva più difficile comprendere?

Raramente la sospensione di ciò che chiamiamo "la normalità" avviene in modo delicato e incruento. È vero invece che come negazione essa è sempre contemporaneamente sorpresa e minaccia. Possiamo registrare il sentimento d’incertezza che ne deriva come conseguenza di ciò che essa ha il potere di bloccare o di terminare. Il timore che questo provoca è così proporzionale all’indeterminatezza del suo durare e all’ansia che ne scaturisce. Ma l’ansia per che cosa?

Di nuovo, soltanto per l’attesa del ristabilirsi del normale, del consueto e dell’ordinario: di quella conformità alla norma che regola abitualmente, nel ritmo nei suoi significati stabiliti, la nostra esistenza; ma la cui sospensione ha fatto crescere a destra la critica dei paladini delle "libertà" (che per quella parte politica coincide unicamente con la libertà di impresa o poco più), e a sinistra il sentimento per la privazione della "libertà" (svelandoci il fatto che per una certa "sinistra" – vincitrice o meno di primarie – si viveva  già evidentemente in un mondo di libertà!, beati loro...).

Eppure, il sollievo del mondo tornato "normale" non può farci perdere la consapevolezza, oggi ancor più chiara, dopo la sospensione avvenuta (e non del tutto scongiurata), dell’essenziale mancanza di quella normalità. Della sua "negatività" costitutiva o (per meglio dire) della sua insufficienza rispetto a ogni aspirazione di liberazione che non coincida semplicemente col recinto (sempre più misero) delle libertà definite dall’abitudine alla norma. Nondimeno, se un sentimento di inadeguatezza permane è perché siamo invece consapevoli che la libertà a cui possiamo aspirare è soltanto quella della normalità ri-stabilita, da cui sembra dipendere (in modo sempre più incerto) il bisogno istintivo di sicurezza che la sospensione della norma era sembrata mettere in dubbio.

Per scacciare l’inquietudine, la pubblicità del "ritorno felice alla normalità" deve farci credere, non tanto che torneremo per davvero e al più presto (anzi subito) alla normalità usuale; ma che quella normalità è anche l’unica condizione a cui possiamo davvero aspirare, senza farci distrarre da inutili dubbi al suo riguardo. Dacché è evidente che il primo nemico della norma non è l’infelicità di chi accetta di sottostare alla sua normalità come a un male necessario, ma il dubbio inconfessabile che questa potrebbe in realtà non essere ineluttabile.

Il nemico della norma è cartesiano. Ama il dubbio, prima ancora della contraddizione. E apre differenze dove la consuetudine pretende continuità. E soprattutto è poco incline, per consapevolezza, alla cordialità politica. Sa che prima che il dubbio cominci a serpeggiare, a rendere la normalità meno normale di prima, il "cattivo Genio" cercherà di riaffermare il proprio dominio rimettendo in moto lo spettacolo dell’"inganno", così che nessun novello Cartesio possa più porsi neppure il problema di giustificarne l’apparenza.

Lo spettatore contemporaneo non ama dubitare: l’unica cosa a cui tiene è che lo show ricominci al più presto. Ma prima che lo spettacolo riprenda il controllo, i discorsi sulla spiaggia ritrovata suonano dapprincipio malinconici; le prime danze in discoteca fuori luogo e un po’ tristi, nel loro tentativo impacciato di agitarsi col sorriso "di prima". La normalità sembra non trovare ancora la consuetudine in cui potersi riconoscere. Ma sappiamo che l’effetto è momentaneo. Poiché il tempo garantisce alla norma il suo istituirsi come normalità, anche il suo ri-stabilirsi è soltanto questione d'attesa.

Le immagini della "natura" che si "riappropria degli spazi liberi dall’uomo", l’acqua tornata limpida a Venezia e nel Sarno sono già un lontano ricordo. Servivano solo a consolarci del sacrificio di non poter più inquinare quei luoghi con la nostra abituale attività. La normalità che ritorna ci assicura di mettere presto in ordine le priorità.

I segni della guarigione sono già evidenti: il Sarno ha ripreso il colore marrone e l’odore putrefatto che certifica la migliorata salute dell’industria italiana – la stessa che garantisce a molti cittadini di Taranto una vita più breve che altrove; le grandi navi sono tornate ad arare il fondo della laguna veneta, così come concesso dalle norme della navigazione italiana; lo sfruttamento sul lavoro è ripreso con la sua consueta lista di morti...

Poiché non siamo ancora abituati al ritorno rassegnato al mondo di prima, certi aspetti ci sembrano forse in contraddizione con l’immagine idilliaca della solidarietà di Stato, che ci cullava "a reti unificate" durante i mesi del contagio. Ma anche questo è un effetto soltanto transitorio: un sentimento che ci rende ancora titubanti, prima di lasciarci finalmente al consueto "si salvi chi può" della riconquistata libertà.