L'arte dal punto di vista della vita
Melania Moltelo

17.09.2021

Cosa corrisponde in arte al mettersi dal punto di vista della vita? Cosa corrisponde al “mettere in sensazioni” l’orrido e non a riprodurre ancora uno spettacolo dell’orrore? Probabilmente il presupposto è nella rinuncia al figurativo, nel tentativo di disabituare l’occhio allo sguardo fotografico a cui siamo costantemente esercitati.

Avvicinare la vita è un processo anomalo, di “disorganizzazione”, di impoverimento. E questo impoverimento si realizza nel segno di un superamento della rappresentazione, come un tradimento del principio mimetico.

L’istinto artistico più risponde alla vita quanto meno guarda alla sfera organica delle forme naturali per imitarle, per questo a ragione Deleuze in Logica delle sensazioni  individua il problema che accomuna tutte le arti: la captazione delle forze, e non piuttosto la riproduzione o l’invenzione di forme. In pittura, come in musica, si tratta di rendere visibili o udibili forze che non lo sono.

Talvolta la forza impercettibile di una certa arte diviene parte delle forze date di un’altra arte: c’è una possibilità di dipingere il grido o di far vibrare i colori in musica.

Deleuze sceglie Cézanne come l’esempio massimo di registratore di forze: tutto lo sforzo della sua pittura si concentra in una visualizzazione del corrugamento delle montagne o della germinazione di una mela. Anche le deformazioni di Bacon non sono indice di torture o di imposizioni, ma sono le posizioni più naturali di un corpo che si raccoglie in funzione delle forze invisibili che si esercitano o si agitano su di esso. Il grido e non l’orrore.

L’aspetto più interessante delle riflessioni di Deleuze sulla pittura di Bacon mi sembra proprio la rivelazione del grido della vita contro (esagerando…) la morte. In Bacon alla miseria del figurativo corrisponde una “Figura della vita sempre più forte”, una postura “larvale” che intensifica i potenziali di alterazione del simile.

Allo stesso modo, il carattere scarno della prosa di Kafka lascia vibrare la lingua in intensità e non più in estensione: non si tratta di tracciare i contorni della realtà, ma di attivare quelle potenze che la realtà trattiene in incrinature e capaci di trasformare i loro contenuti e i contenuti della vita stessa. Bacon e Kafka, “rappresentando” l’orribile e il fallimento, hanno dato alla luce figure indomabili e hanno indovinato una nuova capacità di fare ridere la vita sulla superficie di una tela.

Non è la riproduzione fedele e la cura del dettaglio, che nascono da una percezione ordinaria, ma la restituzione grottesca e residuale dell’uomo il motore di una liberazione della vita all’incessante processo metamorfico. D’altronde, scrive Klee, che nelle epoche critiche l’arte non può che rifugiarsi in una qualche forma di “astrazione”; la semplificazione del “messaggio” si converte necessariamente in cinismo di fronte all’orrore sociale e finisce per essere uno sguardo bieco dal punto di vista della morte.

Si può forse aggiungere che l’espressionismo tedesco, nella ricezione di Ferruccio Masini come “rivoluzione per l’elementare”, trattenga già l’esigenza di lasciare incontaminate le cose dall’avidità dell’appropriazione e di visualizzarle al loro stato nascente, come vita che sgorga da se stessa e svincolata dalla cattura di uno sguardo accentratore.

È il principio di una “mistica profanata”, che persegue la via dell’astrazione, a tramutare la povertà nella ricchezza infinita del non-possesso.