14.05.2023
Il testo che segue è la Prefazione di Miguel Abensour, La voce di Pierre Clastres, tratta dal volume di Clastres, L’antropologia politica. Il potere e le società contro lo Stato, trad. e cura di Gianfranco Morosato, edito da ombre corte.
Prefazione
Non sorprende che l’intervista con Pierre Clastres sia stata realizzata dalla rivista “L’Anti-mythes”: creata a Caen dagli ex studenti di Claude Lefort, essa era conosciuta per essere particolarmente interessata alla storia di Socialisme ou Barbarie, e per aver pubblicato alcune interviste con gli ex membri del gruppo. Se Pierre Clastres non è mai appartenuto a questo gruppo, non di memo si era avvicinato al movimento antiburocratico, condividendone senza riserve la critica all’Urss. Lo prova la nota che pubblicò su Anatolij Marchenko in “Textures” (10-11, 1975), il cui comitato di redazione era composto, tra gli altri, da Cornelius Castoriadis e Claude Lefort. È nello stesso numero che Marcel Gauchet iniziò il suo lungo studio sull’opera di Pierre Clastres. Occorre precisarlo? L’intervista in “L’Anti-mythes” era seguita da un breve testo di Marcel Gauchet, già apparso nell’ottobre 1974 in “Études de marxologie” diretta da Maximillian Rubel. A ben vedere, l’intervista di Pierre Clastres (9, 14 dicembre 1974) si colloca temporalmente tra l’intervista di Cornelius Castoriadis (primo semestre 1974) e di Claude Lefort (19 aprile 1975): è dunque all’interno della costellazione dell’antitotalitarismo radicale che Pierre Clastres dà il suo contributo a “L’Anti-mythes”. Inoltre, un po’ di tempo prima della sua morte incidentale nell’estate del 1977, partecipò attivamente alla creazione della rivista “Libre” che succedette a “Textures” e dove furono pubblicati i suoi ultimi testi.
Quanto ai redattori di “L’Anti-mythes”, si può pensare che impressionati, come molti all’epoca, dai primi scritti di Pierre Clastres, non furono che felici di potergli offrire l’occasione di esporre le grandi linee del suo lavoro, così innovativo. Qualche anno prima, con Anthropogie politique (Puf, Paris 1967) Georges Balandier aveva tracciato un quadro di quella che Thomas Kuhn chiama la “scienza normale”. La stessa cosa fece Jean-Willam Lapierre, la cui opera fu presa di “mira” da Pierre Clastres nel suo saggio Copernico e i selvaggi.
A Pierre Clastres spettava il compito di presentare le tesi rivoluzionarie che daranno origine a nuovi paradigmi e a una nuova antropologia politica. Queste tesi sono tre.
1. Le società cosiddette primitive sono effettivamente delle società senza Stato non per mancanza o difetto, ma per il rifiuto dello Stato, tanto che non si possono più chiamare “società senza Stato” ma “società contro lo Stato”. Questo passaggio dal “senza” al “contro” porta a mettere in luce un insieme di dispositivi che hanno la funzione di impedire, di bloccare l’apparire di un potere politico separato dalla società. Tuttavia, l’insieme di questi meccanismi costituisce una vera e propria politica selvaggia, pienamente adulta. Là dove l’antropologia politica classica non vedeva nulla, o soltanto degli embrioni di Stato, la nuova antropologia sa descrivere una specifica istituzione politica del sociale, destinata a sbarrare la strada allo Stato, nella misura in cui essa si oppone al costituirsi di un potere politico separato. Ne consegue perciò che la politica esiste prima dello Stato, il che porta a concepire una distinzione essenziale tra la politica e lo Stato, tra la politica e lo statuale.
Grazie ai lavori di Pierre Clastres sembra che possa esserci politica, una forma di comunità politica, senza che vi sia necessariamente Stato. Distinzione fondamentale dalle conseguenze determinanti: lo Stato si trova in qualche modo detronizzato. Lungi dall’essere il compimento, la realizzazione della politica, lo Stato si trova ridotto a non essere che una forma possibile tra le altre, una forma regionale e che per ciò non ha più la vocazione a diventare universale. Perché la politica può dispiegarsi all’esterno dello Stato e contro di esso.
2. Lo studio delle tribù indigene dell’America del Sud rivela che il capo selvaggio è dotato di prestigio – il che non è poco – ma è privo di potere. Questo significa che nella società egli si pone all’esterno del potere, che non dispone del potere di comandare e di trasformare gli altri membri della tribù in soggetti che obbediscono. La logica della società selvaggia, società indivisa, vuole che essa rimanga tale e si opponga a ogni situazione che potrebbe introdurre una divisione tra dominanti e dominati, e lasciare che si produca un potere separato dalla società. Non di meno resta il fatto che il capo, privo di potere, è un pezzo essenziale della società selvaggia: è lui che nei rapporti con le altre comunità assume la volontà della società di esistere in quanto totalità indivisa. Se si considera il criterio del debito per valutare l’esistenza del potere è evidente che questo non è separato dalla società, perché è il capo a essere in debito nei confronti della società e non il contrario. Il capo che deve possedere doti oratorie è in debito di parole e deve dare prova di generosità, è in debito di beni. Il capo selvaggio è sotto sorveglianza; secondo Pierre Clastres la società vigila a che il suo piacere per il prestigio non si trasformi in desiderio di potere.
3. A Pierre Clastres non basta opporre le società senza Stato alle società con Stato, o meglio, le società con potere non coercitivo alle società con potere coercitivo; ci invita anche a praticare una rivoluzione copernicana, vale a dire a operare una conversione dello sguardo, una svolta radicale che consiste nel far gravitare le società con Stato attorno alle società contro lo Stato, in modo da aprire e scoprire uno spazio di comprensione inedito e rinnovare completamente il modo di intendere la politica. Dopo Clastres, è importante comprendere la società con Stato a partire dalle società contro lo Stato, e non più la società senza Stato a partire dallo Stato, come se le società primitive trovassero il loro senso in una logica della mancanza, del deficit e non in una logica del rifiuto.
A dire il vero, l’intervista con “L’Anti-mithes” è un testo polemico. Pierre Clastres non contesta, afferma. Che cosa afferma? Che la società contro lo Stato non contiene in quanto tale dei “pezzi di potere” o delle “sequenze di potere” che potrebbero diventare l’embrione di un potere di Stato. Così facendo, Pierre Clastres lotta contro quello che chiamerei il foucaultismo ambientale. La tesi di Michel Foucault quanto all’esistenza dei micropoteri ha condotto, a torto, a vedere il potere ovunque. Così Félix Guattari, nonostante la sua ammirazione per l’opera di Pierre Clastres, respinge come troppo brutale l’opposizione tra società con Stato e società contro lo Stato, perché secondo lui anche nella società senza Stato vi sarebbero delle forme di potere. È per questo che Pierre Clastres nell’intervista si mostra determinato nel rifiutare la tendenza di scorgere il potere ovunque. Così si preoccuperà di insistere sui requisiti del potere e, nello stesso tempo, cercherà ripetutamente di distinguere chiaramente tra le situazioni di potere e quelle che non lo sono.
Affinché ci sia potere è necessario che ci sia una divisione della società a partire dal rapporto comando-obbedienza. È necessario che la società si divida tra un alto – i dominanti – che comandano e un basso – i dominati – che obbediscono. Un potere che non si esercita non è un potere. L’esercizio del potere si manifesta con il fatto che coloro che sono in alto obbligano coloro che sono in basso a pagare il tributo sotto forma di lavoro alienato o sotto ogni altra forma. Pierre Clastres professa dunque una concezione restrittiva del potere in quanto è specificamente politico e in quanto il rapporto di potere si manifesta con la divisione, e a partire da questa divisione politica con l’obbligo di pagare il debito nei confronti del capo o del gruppo dominante. Su questo punto Pierre Clastres non può essere più esplicito. “Ma il tributo, a cosa serve? Serve innanzitutto a marcare il potere [...] Il tributo è il segno del potere e nello stesso tempo il mezzo per mantenere, assicurare la conservazione della sfera del potere” (infra, p. 29). Se non c’è una divisione politica e manca l’obbligo di pagare il tributo, la situazione di potere non esiste.
Prendiamo il caso delle norme sociali o di quello che potremmo chiamare il potere normativo che la società esercita sui suoi membri o più esattamente su se stessa. Non si tratta di un potere politico. Non è né un capo, né un gruppo dominante particolare che detiene questo potere. Sono le norme che la società impone a se stessa e grazie alle quali essa si conserva e si riproduce. Questo potere, che non corrisponde a nessuna divisione politica, né si traduce nell’esigenza di un tributo, si manifesta attraverso l’educazione, attraverso l’apprendimento delle norme e la socializzazione. Come conclude Pierre Clastres, non si è nel campo del potere politico, né in una situazione di potere. Lo stesso vale per lo sciamano o lo stregone che possiede incontestabilmente dei poteri. In quanto medico è padrone della vita e della morte.
Ma possedere dei poteri non significa detenere il Potere, perché questi poteri non sono di natura politica. È ancor meno probabile che lo stregone detenga il potere perché diverso dal profeta. È evidente, all’osservatore non basta rilevare l’esistenza del potere, deve anche porsi il problema di sapere se questo potere appartiene o meno al campo politico. Due criteri gli permettono di rispondere a questa richiesta: c’è divisione politica, e l’esercizio del potere si distingue dall’obbligo fatto ai dominati di pagare il tributo? Una volta ricordata la natura politica del potere, non si può più a proposito di qualunque situazione di potere concludere che esiste un potere di natura tale da trasformarsi in potere di Sato.
Ho avuto la fortuna di seguire per due anni l’insegnamento di Pierre Clastres a l’École pratique des hautes études. Esso non assomigliava a nessun altro. Pierre Clastres arrivava con un grande quaderno, che non apriva mai, e iniziava. Parlava in modo piuttosto meditativo tenendosi a distanza tanto dal rituale accademico che dalla cerimonia profetica. È con una difficile semplicità, come se avesse avuto una precedente ascesi, che cercava di ritornare alla cosa stessa: nella fattispecie, l’enigma dell’istituzione politica del sociale nelle società selvagge, l’enigma di una chefferie senza potere, al di fuori dal potere, l’enigma delle società selvagge. Ora, l’intervista, con il suo carattere brusco, le sue provocazioni, la sua ironia appena velata, in breve, con ciò che costituisce la sua inimitabile qualità, ha il grande merito di farci ascoltare qualcosa di questo insegnamento, il tono, la voce di Pierre Clastres.
Ascoltiamo questa voce, la voce di un uomo libero che lancia un appello per la libertà degli altri uomini. Voce all’ascolto del canto degli Aché nella notte, voce all’ascolto di La Boétie, di Rousseau, loro stessi passeurs, all’ascolto dei “popolo nuovi” prima del tragico evento, del malaugurato accidente1. È di tutte queste voci mescolate che risuona e vibra la voce singolare di Pierre Clastres.
1Ciò che Étienne de la Boétie, citato da Clastres in Libertà, malencontre, innominabile (in L’anarchia selvaggia , trad. it. di G. Lagomarsino, elèuthera, Milano 2013), chiamava “ malencontre”, in seguito al quale l’uomo rinunciò alla propria natura,“l’esser nato propriamente per vivere libero”, scegliendo invece la servitù [N.d.T.].