Landness
Una storia geoanarchica
Matteo Meschiari

07.10.2022

Il testo che segue è estratto dal volume di Matteo Meschiari, Landness. Una storia geoanarchica, edito da Meltemi.


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Reclus glielo aveva detto più o meno così: “non andare”. Ma Bertoni veniva da un mondo di montagne e di lotte che lo aveva caricato come una molla, una molla inesorabile che una volta scattata avrebbe portato lui e i suoi cari in una folle odissea dissipativa, dalla Svizzera al Paraguay, dal centro ideale della resistenza anarchica ai disastri dell’utopia sociale. Poi, a cose finite, ci fu la celebrazione mitica, certo, le migliaia di pagine a testimoniare una delle più grandi avventure geoantropologiche a cavallo tra Otto e Novecento, ma alla resa dei conti, in quel tempo privato che è fatto di stomaco e carne, di pene psicologiche e dolore muscolare, il viaggio di Bertoni fu un vertiginoso crollo in cui fede e miseria assunsero quasi lo stesso sapore. Dovremmo capirlo anche noi che, dopo quasi un secolo di relativa pace bellica e climatica, sepolti in una bolla di cecità dorata e anestesia economica, cominciamo a sentire con profonda stanchezza esistenziale (preparata in realtà da alcuni decenni di disgregazione invisibile) il ritorno ineluttabile di pandemie e guerre, con tutto il loro potere di annientare futuro e speranza. Per questo l’altrimenti sconosciuto Mosè Bertoni sembra oggi un eroe antropocenico, il primo forse, che anticipa, quasi profetico, gli scenari più esotici del collasso cognitivo dell’Occidente: una fiducia illimitata e quasi arrogante nella capacità di gestione del caos, mentre il caos, proprio come la foresta amazzonica oscena e omicida di cui parla Herzog, è il misterioso ingestibile, il muro verde contro cui il delirio umano di onnipotenza si sfracella come un moscerino sul parabrezza, l’indifferente culo d’elefante su cui la zanzara umana si posa e, heideggerianamente, crede di abitare. Fitzcarraldo della visione e del fallimento, Mosè Bertoni è lo specchio contemporaneo dell’arrivo della faglia e della nostra illusione di poterla saltare con un mero sforzo di volontà, un cul-de-sac dell’ottimismo di specie, invece, dopo l’illusione romantica, la sperequazione di energie, l’accanimento al limite dell’ottusità.

Non andare, aveva detto Reclus che, dopo il fallimento della Comune di Parigi, aveva compreso i limiti dell’inguaribile umanesimo anarchico, cioè che è proprio l’uomo, il vicino, il fratello il virus che dall’interno porta al crollo le comunità utopiche. Glielo scrisse nero su bianco in una lettera del 23 ottobre 1883: “Ora, qual è la passione che anima la vostra società? Qualunque sia il valore personale e la moralità delle persone che la compongono, il loro obiettivo principale è probabilmente ‘riuscire’. In tal caso, il gruppo è diviso da subito, poiché molti dei vostri amici vedranno o s’immagineranno fin dal principio che il successo è più facile standone fuori”. “Fin dal principio”, lo avverte, e sarà proprio così. Come quando Carlo Thomachot, ginevrino, spinto all’impresa Bertoni pare da Kropotkin stesso, appena sbarcato a Buenos Aires e preso dall’euforia della bella vita, dissipò in pochi giorni una somma ingente destinata al progetto collettivo. Bertoni però aveva il sangue caldo. Scrivendo alla moglie la lettera decisiva del “si parte”, aveva detto: “Sì cara Eugenia; noi partiremo da una supposta patria, noi sdegneremo una società sifilitica che le bombe soltanto sapranno guarire; una società che dal lezzo in cui gavazza puttanescamente ci beffa delle nostre superstizioni umanitarie, e ci offre il suo immondo pane a prezzo dell’umiliazione e dell’abbrutimento. No, giuraddio!”. Così, probabilmente, Élisée Reclus, Pëtr Kropotkin, Rinaldo Simen, dopo aver tentato di dissuadere l’amico con vari argomenti, cedettero di fronte alla sua vocazione fanatica come si fa con un figlio irredimibile, risolvendosi ad aiutarlo, anzi, o provando a ridurre il disastro. Ad esempio, indirizzandolo nella scelta del luogo in cui fondare la fatidica comune: il Nilo, il Congo, Sumatra? Meglio il Sudamerica.

Porto di Genova, 11 marzo 1884, Vapore Nord America. Il clan Bertoni s’imbarca in terza classe e sprofonda per ventun giorni in un girone dantesco di buio, sudore, vomito, escrementi animali, mal di mare e marinai dal fare viscido. Sullo stesso vapore, in prima classe, c’è Edmondo De Amicis che, nel romanzo di successo Sull’Oceano (1889), racconta la prua dei 1.600 emigranti: “sotto l’espressione provocante di tutti quei visi, s’indovinava un oscuramento passeggiero di ogni speranza, una grande stanchezza della vita, un pianto segreto, che usciva in ira; e si vedeva che soffrivano, e che, in fondo, avevano pietà gli uni degli altri, e ciascuno di sé stesso”. Difficile non trarre da treni senza conducente e transatlantici senza speranza la metafora di un’epoca suicidata dal collasso. E immaginare Bertoni in quel carnaio, il suo cranio già attaccato dalla calvizie e pieno di visioni incomunicabili, il suo nascondersi in un futuro invisibile, il vip De Amicis che lo scambia forse per un contadino della Val di Blenio, i migranti climatici di allora o di oggi, l’oceano dei demoni come una lastra di platino, il tempo biologico che incalza per tutti, immaginare insomma milioni di vite individuali appese a un “e se” e a un “ma quando?”, mi fa pensare in fondo che l’utopia geoanarchica, la landness, l’Antropocene manifesto sono quanto di più lontano dall’etica neoliberista del fallimento: fallisci, fallisci meglio, rialzati. E invece l’alternativa antropologica incistata nella Terra, una terra aliena e incoercibile, piena di lotta e miseria, è quella entropica dei vinti che tuttavia, per una qualche ragione ormai smarcata dalla speranza, portano avanti una bandiera negata, come il soldato di Javier Cercas che cammina “senza sapere bene dove stia andando né con chi né perché, senza che gliene importi troppo purché sia in avanti, avanti, avanti, sempre avanti”.

Arrivato a Buenos Aires, Bertoni apre molte porte grazie alla buona parola degli amici, e poi il 30 aprile comincia “felice, felicissimo” il vero viaggio “in questa terra meravigliosa”, un viaggio di ottantadue giorni che somiglia a un massacro. Imbarcata su un vapore che percorre il Paraná, dopo una decina di giorni, a Corrientes, la comitiva è costretta a procedere via terra perché il livello del fiume è troppo basso per superare con un vapore il salto di Apipé e le rapide di Ombú. Così, su carri trainati da buoi, sopra terreni ispidi e pantani e paludi risucchianti, procedono al ritmo di una decina di chilometri al giorno temendo l’incontro con belve e banditi. Mentre la moglie Eugenia è incinta al quarto mese, mentre Tonio e Tellina avanzano in trance straziati dalla morte della figlioletta, mentre tutti contemplano la propria miseria di umidità e insetti e muscoli tetanizzati, Mosè si compiace: “Il paesaggio sfida ogni descrizione. Dall’altura dove siamo, il colpo di vista è imponente, quell’immenso spazio perdentesi lontano lontano nell’infinito, seminato da ubertose colline graziosamente ondulate, da vaste praterie smaltate di fiori come le pasture dei nostri monti, da vergini foreste dove mai uomo pose piede, dal placido gran fiume nel quale si specchia una eterna verdura, quella regione privilegiata è… la nostra nuova patria!”. Bertoni scrive alla “Voce del Ticino” in forma di corrispondenza pubblica, descrivendo un paesaggio che gli stereotipi linguistici e l’aggettivazione primaria rendono quasi invisibile. Reclus, quando ancora tentava di dissuaderlo, gli aveva scritto: “Vi confesso che per mio conto non mi rassicura affatto l’idea di una emigrazione di tante persone assieme in un paese che per loro è impossibile immaginare”. La frase non va letta troppo in fretta. Per Reclus il successo dell’impresa è strettamente legato alla sua immaginabilità, al fatto di poter immaginare l’inimmaginabile. Ma, a patto che pensasse che Bertoni ne fosse davvero capace, la descrizione ordinaria, per non dire sciatta, di quel paesaggio che voleva addirittura essere una nuova patria mette crudamente il dito sopra un dente cariato.

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Scrive Bertoni il 9 luglio 1884: “Il paese in generale è ammirabilmente bello, tutto ondulato, seminato di graziose colline, coperto in parte da una splendida vegetazione, irrigato in ogni parte di corsi d’acqua e da limpide sorgenti, percorso dall’immenso fiume che è il Paraná”. Bello, grazioso, splendido, immenso… Come vedremo, sarebbe ingiusto e quasi crudele ridurre una vita magmatica e a tratti titanica a poche righe estratte cinicamente da un resoconto secondario. Ma la questione in gioco è al cuore della landness, cioè il nesso cognitivo e politico tra landscape e mindscape, tra visibile e invisibile, tra vita e sogno. Quali strumenti aveva insomma Bertoni per fare immaginare ai suoi compagni le terre di Misiones nei pochi mesi cruciali prima della partenza? Quali possibilità aveva, una volta là, di fare innamorare di quelle terre i futuri coloni ticinesi che voleva reclutare? Fino a che punto l’immaginazione ha a che vedere con il destino di un’utopia?


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Posadas, maggio 1885. È passato meno di un anno dal loro arrivo a Santa Ana, ma le cose sono andate storte da subito, proprio come aveva profetizzato Reclus. Il viaggio di avvicinamento aveva macinato gli animi, lo sconforto aveva avvelenato l’ideale (se mai ce n’era stato uno) e Bertoni era la malta di sogni e parole che avrebbe dovuto tenere assieme una costruzione di schegge impazzite. Quasi tutti reagirono come il cane che morde e che difende il boccone, la compagnia si separò, alcuni presero i loro sacchi e se ne andarono senza dire una parola, alla fine con Mosè rimase solo una famiglia. Fine della comune socialista. Amore, fratellanza, comunità, tutte parole al vento. Ma era anche la fine dell’utopia? Giuseppina, la madre, che lo aveva seguito oltreoceano, scrive al marito rimasto in Svizzera raccontando lo scioglimento della società, e tira un sospiro di sollievo, dicendo che il figlio penserà finalmente solo al proprio interesse. Dunque Bertoni diventerà un emigrato qualunque? Poco più avanti, in un’altra lettera, Giuseppina si lamenterà invece con il marito del fatto che alla colonia mancano sementi per mangiare, mentre Mosè, come rapito da un altro piano dell’esistenza, semina piante per mere ragioni di studio. La comune non è mai nata ma l’ideale utopico sembra migrato nell’unica direzione possibile, la Terra che, nella sua forma più vuota, desolata, inumana, può accogliere la mente ferita, fiaccata dal disincanto. Come un grande corpo-oggetto, come una prostituta sacra che giace al centro di un rito ancestrale di annullamento, la foresta amazzonica, voluttuosa, spietata, ha per Mosè il potere seducente della sirena. Barcamenandosi tra “i bisogni della vita materiale” e le bellezze dell’“immensa natura”, Bertoni resiste in Argentina fino al 1888 quando, in modo improvvisato e fortunoso, decide di trasferirsi con la famiglia in Paraguay.

Fu per salvarsi la pelle. Letteralmente. Osservatorio meteorologico, giardino sperimentale di acclimatazione, terreni da dissodare nella foresta erano solo fragili diaframmi tra le ambizioni umane e la grande macina biologica. Da avamposti del sapere e delle buone intenzioni si trasformarono in altrettanti luoghi di trincea e resistenza. Come in una guerra senza bandiera, siccità, dissenteria, allagamenti attaccarono la piccola comunità che, arretrando metro dopo metro, troverà rifugio (anche lei) in una capanna indigena sull’orlo dell’annientamento: “la violenza estrema delle piogge e gli urti della tormenta non tardarono ad aver ragione della nostra debole difesa. Un giorno era una parete che cadeva, l’altro era il tetto che volava in mille brani”. Anche le raccolte di storia naturale di Bertoni sono ridotte in poltiglia dalla pioggia. A stento riesce a salvare una parte delle proprie note, ma molte pagine hanno l’inchiostro sciolto. Poi torna la buona stagione, i vestiti si asciugano, il fango si secca, ritornano la speranza e il buonumore. Poi cessa la fornitura dei viveri promessa dal governo, i primi soci tornano alla spicciolata e sottraggono vari attrezzi e un cavallo, le munizioni perdute rendono impossibile la caccia. Poi un alambicco per distillare la canna da zucchero fa risalire la fiducia nel risolvere una volta per tutte il problema della sussistenza. Poi gli speculatori locali che non vedono di buon occhio i suoi progetti di espansione coloniale attaccano l’abitazione dei Bertoni e tentano di assassinare Mosè. Era abbastanza. In una notte che rischia di risolversi in tragedia, i Bertoni attraversano il Paraná. Nel tragitto la barca si rovescia, quasi tutto il materiale è perduto, il figlioletto Mosè Junior è strappato a stento dalle correnti, un giaguaro uccide una guida nel fortunoso accampamento sull’altra riva del fiume.

È difficile anche solo immaginare gli effetti di logoramento fisico e psicologico di un’esposizione prolungata al deserto. In età altomedievale il termine “wilderness” era servito per tradurre il latino solitudines, il luogo inabitabile delle tentazioni di Cristo, la terra che Dio aveva riservato a Caino, ma quello che si perde invariabilmente in ogni processo di addomesticamento verbale è l’irriducibile alieno. Le narrazioni del collasso, le autonarrazioni della crisi, perfino le elaborazioni del trauma più sincere e disincantate sono un abbassare lo sguardo di fronte a una nudità oscena, sono il momento in cui perfino de Sade chiude gli occhi davanti al castello di carne che crolla. Invece è proprio questo abbacinante punto omega, questo grumo di nera luce che bisognerebbe imparare a fissare, o almeno sbirciare con vista periferica, per sviluppare quella competenza antropocenica che servirà alla nostra specie per passare la faglia. Non la fede in qualche divinità confessionale o laica, ma un’etica dell’imbarazzo ultimo per fare vuoto e per preparare in quel vuoto il ritorno quasi biologico della speranza. Mosè Bertoni, in questa oscillazione massima tra densità e dissipazione, tra acribia e incompletezza, illustra una specie di metodo, una pratica del paradosso che, dall’Ottocento, dagli abissi di un mondo definitivamente perduto, arriva nei primi decenni del nuovo millennio come un tiro di fionda su una vetrina.

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Foz do Iguaçu, 19 settembre 1929. Muore Mosè Bertoni. Innamorato fino alla cecità di una natura che vede benigna, positiva, ricca di doni, così lontana insomma dalla fornicazione e dalla disperazione caotica e dolorosa che alimenta la visione apocalittica di Werner Herzog, il vecchio anarchico svizzero, malato di febbri, logorato dal decadimento, si trova infine sull’orlo dell’abisso. E, sopra quell’abisso, ormai incapsulato in un tempo che non ritorna, vede con un’angoscia tutta umana la tragedia della propria incompiutezza. Non valgono in quel momento le migliaia di pagine accumulate: Condiciones generales de la vida orgánica y división territorial (1918); Memoria sobre la existencia de lluvias periódicas (1918); Agenda y mentor agrícola (1926); El rozado sin quemar (1926); La civilización guaraní (1922-1927); Higiene y medicina rural (1927). Tutti titoli editati in proprio per i tipi Ex Sylvis, la tipografia che ha impiantato nella sua ultima colonia a Puerto Bertoni. Per non parlare dei moltissimi manoscritti impilati, alcuni ancora inediti che, come pagine di un erbario, lasciò dietro di sé tra l’umidità e gli insetti. Il nipote Liberio, parlando dei suoi ultimi giorni di vita, disse che “quel gigante del pensiero si è guardato di botto allo specchio e tremò, vide il presente, e una nube che durava lustri si era aperta in quel momento”. Così, scoprendosi impotente di fronte a un’immensa mole di lavoro che franava, con i figli che non avevano raccolto la sua eredità, Mosè alla fine si spezzò. Che cosa significa, per un titano dai piedi d’argilla, non portare a termine la propria opera? Che senso dare al volo rapidissimo di una vita che, giungendo al termine, svela l’inconsistenza degli sforzi, la vanità del volere? Come dare un senso, una qualche salvezza, a una catena di eventi in cui il bilancio tra vuoti e pieni somiglia a zero? Insomma, che cosa ha salvato l’odissea di Bertoni? Che cosa può salvarci in un’epoca di collassi sistemici?

La risposta mi sembra di leggerla in un foglio a quadretti datato 1886. Si tratta del primo rilievo idrografico del Paraná da Yavevuyry al Norte del Pirayuvy, disegnato a penna, con segnati a matita i terreni acquisiti dai soci di Mosè. In quel periodo, il Geoanarchico svizzero tenta con ogni mezzo di dare una base economica al proprio sogno, prima cercando aiuto nella ricchissima famiglia del presidente Roca, poi in una cordata di capitalisti ticinesi a Buenos Aires. Sarà solo una delle tante contraddizioni che lo abitano, in un vertiginoso cammino di cresta tra socialismo utopico e ambizioni imprenditoriali, tra innamoramento per i Guaraní “primitivi” e il progetto evoluzionista di civilizzarli, tra ateismo anticlericale e adesione tardiva al cattolicesimo, tra rinuncia tolstojana e progressismo liberale, tra internazionalismo apolide e patriottismo neofita, tra pacifismo universale e militarismo come autodeterminazione di una piccola nazione circondata da stati-gigante, tra egualitarismo di genere e gestione patriarcale dell’avvenire delle figlie. Di fronte a santi laici, cristallini e ottocenteschi come Élisée Reclus e Pëtr Kropotkin, Mosè Bertoni somiglia molto più al tormentato personaggio di un romanzo borghese del Novecento. Cioè a noi. E quindi, ancora una volta, che cosa lo salva in questa sua camaleontica parabola permeabile al caos?

La geografia. Non come disciplina ortopedica del disordine naturale ma come pratica dell’immaginario, come tensione esplorativa dell’invisibile. Non bisogna fraintendere. Tutta la produzione di Bertoni è sorretta da uno sguardo sulla natura rigidamente scientifico, la sua avversione per la letteratura, specie quella a lui contemporanea, riduce l’ampiezza del suo sguardo geografico, ma ciò che in realtà non gli è mai mancato, se non proprio alla fine, è la visione, quel qualcosa che in un geografo nasce dalla contemplazione di un paesaggio irriducibile, incoercibile, dal potere evocativo di ciò che nella mappa non c’è ancora, dalle porzioni vuote del foglio. Élisée Reclus aveva tentato di smarcare la geografia dall’esercizio di potere di una cartografia assertiva, aveva cercato nel paradigma del paesaggio una complessità tridimensionale, corporale, tattile per render conto di una dimensione più narrativa, cioè temporale, del nostro stare sulla Terra. In quell’Irlanda in cui era nata la sua vocazione geoanarchica, quasi un secolo e mezzo dopo, Tim Robinson, matematico, artista, inizia negli anni Settanta del Novecento un rivoluzionario progetto di cartografia “poetica”. In Setting Foot on the Shores of Connemara (1996) parla di “Folding Landscapes”, paesaggi pieghevoli, disegnati in maniera artigianale, camminando, immaginando il tempo grande che li attraversa, cercando di render conto della linea tra luce e ombra proiettata da una nuvola o del restare di un lago dopo il salto di una trota, adottando lo sguardo di un gabbiano e cercando un linguaggio diacritico in grado di conservare traccia dell’esperienza del luogo: “mentre cammino questa terra, sono la penna sulla carta; mentre disegno la mappa, la penna sono io che cammino”. Dal primo gesto cartografico nel Paleolitico superiore all’ultima carta che verrà disegnata da un umano, la dimensione utopica e visionaria della geografia è la domanda e la risposta a tutto.


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Da qualche tempo mi tornano in mente due mappe. Per pura coincidenza le ho viste lo stesso giorno. La prima rappresenta la Gran Bretagna, anche se è difficile riconoscerla perché appare come un arcipelago formato da una ventina di isole. Si tratta di un’elaborazione di ESRI, un software cartografico in cui si inseriscono dei valori numerici e statistici e il programma elabora una mappa con invenzioni spaziali curiose. In questo caso, i dati riguardano la Brexit e la mappa finale (intitolata Remain Land) illustra come sarebbe la Gran Bretagna dopo un ipotetico diluvio, dove le uniche terre emerse sono quelle del “no” al referendum. La mappa, oltre a procurare un piacevole straniamento, si presta a un banale commento politico: il Regno Unito, dopo una scelta solitaria e autarchica, affonderà come Atlantide? Ma ESRI, per par condicio, ha elaborato anche la mappa della Leave Land, in cui le terre del “sì” somigliano a un’isola sbocconcellata da laghi e fiordi, una terra ancora compatta che ricorda vagamente l’Isola del Tesoro di Stevenson.

L’altra mappa illustra il tasso d’inquinamento dell’aria in Europa. Come nelle carte meteorologiche, con le linee isobariche dell’alta e bassa pressione e i diversi colori a enfatizzare l’intensità del fenomeno, il Vecchio Continente mostra in modo drammatico il suo variabile stato di salute. Si va da rare zone di un rassicurante verde pisello (le meno inquinate) per passare ad ampie aree di un giallo itterico (più o meno la norma) attraverso un arancione allertante fino all’ineluttabile rosso Armageddon. Il rosso Armageddon è la Pianura Padana (solitaria in tutta Europa) resa cianotica dalle polveri sottili. Anche questa mappa si presterebbe a un commento politico, magari meno sarcastico, magari più violento, pensando alla responsabilizzazione e al senso di colpa dei proprietari di automobile di fronte alle migliaia di fabbriche che fanno PIL.

Da qualche tempo mi tornano in mente queste due mappe per via della Scozia, perché in entrambe quel grosso blocco di terra spicca in maniera prepotente: nella prima, compatta contro la Brexit, la Scozia emerge come l’isola-madre in un disordinato arcipelago frattale, un mondo alla Earthsea dove vorremmo veleggiare un giorno. Nella seconda, proprio sul confine con l’Inghilterra, il giallo di un’Europa ormai simile alla Terra di Interstellar diventa di colpo verde pisello, promettendo aria pulita e speranza per i figli di Sean Connery e Braveheart. La cosa che mi ha colpito in queste mappe “scotocentriche” è che un Vallo di Adriano sembra esserci davvero, uno spartiacque civile, un taglio geografico né astratto né casuale che separa due vocazioni antropologiche, due filosofie politiche: a nord un popolo che prova ancora a immaginare il futuro liberamente, a sud il resto del mondo rassegnato all’Apocalisse. Ovviamente non è così, o non è così semplice, ma il taglio netto lo si vede e basta, e qualunque sia lo sforzo teso a svuotare o commentare il dato visuale, la Scozia resta oggettivamente un luogo in cui si pensa e si respira meglio. A meno che? A meno che le mappe non mentano. A meno che i ribelli non siano tutti comparse.

Ma la vera ragione per la quale continuo a pensare alle due mappe è che Internet me le ha messe sotto il naso proprio mentre mi trovavo ad Aberdeen, al Dipartimento di Antropologia di Tim Ingold. Entrare al King’s College, vedere la bacheca dell’Anthropology of the North, andare in bus a Banchory lungo il Dee, mangiare alla Barn di Fiona e Mark, i pub veri, i bambini che vanno a scuola da soli, la gentilezza asciutta, la quasi totale assenza di aggressività culturale e sociale, due o tre aneddoti su sanità, sistema scolastico e politiche artistiche, mi hanno convinto che la controcartografia è una pratica necessaria. A sud dell’istmo Forth-Clyde, i civilissimi eredi di Roma, duemila anni dopo Giulio Agricola, magari raggruppati in un partito che fino a qualche tempo fa evocava i Celti per propugnare l’indipendenza della Padania, si accaniscono contro tutte le minoranze, in perfetto stile imperiale. Troppo semplice? Ma le mappe sono solo ipotesi narrative? La Scozia è davvero un’isola di civiltà e di cura ecologica? La Padania è davvero tra le terre più inquinate al mondo da polveri sottili e neoliberismo razzista? Quello che è vero è contenuto invece in un’inarrivabile frase di Donald Trump: “Windmills are going to be the death of Scotland”. Che è come dire che ciò che è buono e pulito fa inorridire gli angeli. Andiamo a vedere che cosa succede in America, allora.


© Matteo Meschiari , Landness. Una storia geoanarchica, Meltemi 2022