10.03.2021
L'an-estetico come cifra culturale
Stefano Righetti

Se la differenza è divenuta un concetto desueto, insieme a tutto ciò che essa poteva significare sul piano sociale e politico (una cesura rispetto al piano orizzontale in cui prendono posto le cose e a quello verticale entro cui si delinea il loro ordine) per contro, l’identità della norma che ha stabilizzato la coesistenza delle sfumature (in cui la diversità può declinarsi in modo ‘conveniente’ entro il consentito e l’accettabile) ha lasciato intravedere da ultimo la sua incapacità di mantenere aperta all’esistente la via del possibile – quella che permette a un ipotetico spazio del ‘non-ancora’ di rappresentare la promessa (o almeno la speranza) che non tutto sia ancora precipitato in un ordine dato; che rimanga ancora un elemento da aggiungere (e da raggiungere) a ciò che pretende di porsi come l’inevitabile, non più superabile.

Ma intanto, in questa variazione dell’identico sotto varie forme e sembianze la stessa contrapposizione riformismo-rivoluzione è divenuta a sua volta insignificante e caricaturale. La rivoluzione è già da molto tempo il rassegnato slogan di ogni campagna pubblicitaria, mentre il riformismo è stato declinato in politica a identificare l’astratta vocazione di ogni schieramento. Che significato possono avere questi termini, nel momento in cui nulla è più assente che una concezione della differenza, rispetto ai quali queste definizioni trovavano il loro significato e articolavano la loro prospettiva? Se la rivoluzione in politica pare ormai obsoleta, il riformismo necessita certamente di una ridefinizione, soprattutto a sinistra (il riformismo di destra abbiamo ormai imparato che cos’è).

Ma a parte la cancellazione politica del differente (o, meglio, della capacità di pensare diversamente, prima ancora che di attribuirsi una qualche diversità: dal momento che la diversità è ormai sospetta di appartenere all’identità dello spettacolo più che alla differenza), è in realtà un’intera concezione e costruzione culturale a essere collassata, da ultimo, all’interno dell’identico.

Varrebbe la pena registrare l’accaduto e prendere atto che ciò di cui si avvale l’attuale principio di prestazione è la riduzione di ogni aspirazione individuale alla rassegnazione del contingente. È un’altra fase culturale, non c’è dubbio. Molto diversa, per esempio, da quella ormai lontana (per non dire lontanissima) del dopoguerra. Ma si tratta di una fase culturale, va detto, iniziata ben prima della retorica odierna sulla scuola, i bar e i ristoranti chiusi come emblema della nostra perdita di identità e riferimenti.

A parte i bar, la scuola non è più garanzia di formazione critica da molto tempo: per i riformatori dell’avviamento al lavoro dovrebbe parcheggiare soltanto nuove generazioni di consumatori, in attesa di immetterli nel circuito produttivo con qualche nozione di base che, al di là delle eccezioni, è sempre meno solida (basta rispolverare le indagini degli scorsi anni sulle capacità dei nostri diplomati di comprendere anche solo il senso un testo – scriverne uno figuriamoci). Ma che la perdita dell’aperitivo appaia oggi come la perdita dei propri riferimenti sociali la dice lunga sulla definizione dell’identico entro il quale ci si sentiva rassicurati.

Lo spaesamento su cui la retorica, sovranista e non, articola continuamente il suo discorso, instillando in noi l’ansia per un ritorno alla «norma» prima di ogni razionale attesa, dovrebbe apparirci quanto meno sospetto. I diritti del lavoro, chissà perché, si sono invece potuti stracciare nel corso degli anni senza che si sollevasse la stessa ansia e lo stesso scontento che la perdita delle vacanze e dell’apericena instilla nella pubblica opinione, e non credo che il motivo sia che anche gli aperitivi e le vacanze rappresentano posti di lavoro: il motivo è che senza quell’anestetico la vita in cui ci eravamo adattati nell’identico del ciclo produzione-consumo appare in realtà molto meno interessante di come continuavamo a raccontarcela fuori e dentro i programmi televisivi.

Altro esempio: chissà perché il teatro, il cinema, la musica sono diventati improvvisamente argomenti di discussione politica per un rimpianto della normalità, mentre i diritti di chi lavora nel teatro, nel cinema e nella musica non lo sono al contrario mai stati e cinema, teatro, musica (e potremmo aggiungere scuola, università, ecc.) sono pieni di precari senza alcun diritto, su cui nessuna retorica ha mai costruito la sua narrazione di un ritorno alla norma?

Spostare la narrazione sul piano del consumo o dello spettatore è già aver stabilito e accettato che quello è anche l’unico contenuto del discorso che renda lecita una discussione sull’arte, e che l’unica cosa che conta è che lo spettacolo continui (e riprenda) al più presto la sua funzione. I diritti di chi lavora cosa vuoi mai. (Interessante, a questo proposito, e in termini del tutto positivi, l’iniziativa di ridare voce alla produzione dell’arte all’interno del museo, che Lorenzo Balbi ci descrive nell’intervista qui pubblicata).

Ma la questione andrebbe forse presa da un altro punto di vista. Che cultura è quella che è stata espressa dalle società occidentali dalla fine degli anni 70 in poi? Il salto è probabilmente qui. E dopo il 1989 questa trasformazione non ha fatto che allargarsi. Al di là di ciò che sappiamo, e che Debord, la Scuola di Francoforte e lo stesso Pasolini ci hanno già descritto, è indubbio che un’intera cultura è stata in quel passaggio storico sostituita da una nuova cultura.

A inizio degli anni 90 Flusser ne dava una suggestiva descrizione provando a fare il confronto fra uno spettatore dell’arte rinascimentale e quello della televisione contemporanea (V. Flusser, Il mondo dei media, Bruno Mondadori, 2004). Il risultato di quel confronto non stava tanto nel registrare una differenza estetica, quanto (propriamente) an-estetica. Un effetto di ipnotismo che le rubriche di critica televisiva apparse a un certo punto su tutti i giornali trasformavano in nuova cultura.

Anche qui, parlare di analfabetismo di ritorno è, di nuovo, fuorviante. Semplicemente, siamo entrati nel campo di un’altra dimensione culturale, in cui le espressioni dell’arte e della poesia hanno perso molta della loro forza comunicativa e devono declinarsi in altri linguaggi che ne assorbono e modificano il discorso. Il problema è che questa modificazione (come ogni trasformazione culturale) non avviene mai in un campo neutro.

Quale rivendicazione di libertà delle parole (per usare la definizione di Blanchot) può essere allora messa in scena se la scena non è più libera e ha preso l’identità della proprietà più esclusiva, come ci ricordano appunto Flusser e Debord? Dove riarticolare lo spazio libero della poesia, dal momento che la libertà è insieme l’aspirazione e il rischio (e perciò la condizione) del suo prendere voce? Far sopravvivere l’aspirazione dell’arte nella finzione della scena è stata l’illusione del Surrealismo prima e della cultura contemporanea poi. Ma il risultato non poteva che essere esso stesso una finzione. Che sia quindi la finzione la cifra culturale del presente?

In fondo, l’altro lato del sovranismo è l’idea che tutto non sia altro che un gigantesco complotto e, dunque, finzione. Anni di critica a Cartesio sembrano aver prodotto il risultato meno atteso: oggi si crede più facilmente al Genio cattivo che agli argomenti di una ragione che voleva superare piuttosto le distinzioni troppo rigide dell’impianto razionale. Più che circondare il vivente, la fiction lo crea a sua immagine e somiglianza. Eppure, l’insoddisfazione che pervade l’attuale principio di produzione ci dice che resta qualcosa di incompiuto a questa trasformazione; che rimane qualcosa di non interamente addomesticato; che l’incantesimo potrebbe spezzarsi, se solo finisce o si attenua l’effetto an-estetico e torna attiva una qualche estetica, una nuova attenzione sensibile.