La scomparsa dell'Altro
Marcello Marino

03.06.2021

Tutti i progressi della civiltà sono regressi dell’individuo”. In queste lapidarie parole il giovane Carlo Michelstaedter condensava il senso della sua nascente filosofia (che non vedrà sviluppo a causa della decisione di non condividere gli esiti di questa tenzone: Michelstaedter, infatti, si suicidò nel 1910 a soli ventitré anni). Lo spirito che animava questa considerazione è riconducibile all’idea del progressivo restringimento del “campo individuale” a beneficio della delega della propria sopravvivenza alle strutture della società.

Già Hobbes indicava questa modalità del vivere comune, che comporta l’abdicazione dell’individualità e che rinvia alla più generale nozione di patto sociale. Così le insicurezze, le fragilità umane, le paure e le ansie convergono in uno spazio totale costituito dall’organigramma sociale, capace di dare loro le risposte necessarie. Ma nell’affermazione di Michelstaedter si rintraccia quel movimento di pensiero dell’inizio del XX secolo che “fonda” l’individuo, lo concettualizza e ne definisce una ontologia. Nel rilievo tragico che emerge dall’affermazione di Michelstaedter c’è, tuttavia, l’originario percorso di riconoscimento dell’individuo come entità piena che procede al suo svuotamento attraverso il suo stesso prodotto: il progresso della civiltà.

L’uomo artefice (tecnologico e politico), lascia che i suoi prodotti erodano lentamente la sua natura agente, riflessiva e interazionale. Eppure non c’è alcun modo di cogliere l’individuo al di fuori di questi due parametri: sé stesso e l’Altro, il mondo soggettivo/riflessivo e quello esteso/interattivo. Di questa bidimensionalità costitutiva dell’individuo saranno impregnate principalmente le riflessioni di Heidegger e, con le dovute differenze, quella di Sartre.

Tuttavia ancor prima sarà Kierkegaard ad offrire quella dimensione ineluttabile del vivere che è l’angoscia e che Heidegger concepisce come lo schiudersi del mondo davanti all’uomo (all’Esserci). L’angoscia è lo spaesamento che deriva dal proprio essere gettati nel mondo e, per dirla con Sartre e con Kierkegaard, la consapevolezza della mia libertà, la paura delle mie possibilità. Nel ragionamento che offre Heidegger, il brancolamento che deriva dall’angoscia rinvia però ad un concetto ancora più fondamentale che è quello che il filosofo tedesco definisce “Cura” (Sorge) e che declina nel prendersi cura delle cose (Besorgen) e dell’aver cura degli altri (Füsorge).

Nell’inestricabile rapporto tra sé e gli altri, l’aver cura di sé non può essere scisso dall’aver cura degli altri che, per Sartre, costituiscono addirittura una comprensione pre-ontologica, l’evidenza di esistere e di esistere per-altri. Siamo continuamente immersi in un rapporto intersoggettivo, tutto dipende da questa relazione, e dallo “sguardo”, da come gli altri mi guardano. Per quanto Sartre criticherà Heidegger, per il quale il rapporto intersoggettivo si basa sul “semplice” essere-con – e per questo privo di fondamento secondo il filosofo francese – entrambi conducono alla centralità della relazione. Entrambi riconoscono l’invalicabilità del rapporto con gli altri. La cura degli altri è una condizione imprescindibile dell’esistere.

L’Altro è la ragione d’essere di ogni esistenza, il limite e lo specchio, la modalità del proprio riconoscimento. Eppure assistiamo ormai da tempo al suo dissolvimento, giacché quelle “regressioni dell’individuo” di Michelstaedter sono, in funzione della doppia natura di ogni individuo, dissoluzioni dell’Altro. “L’uomo folle” di Nietzsche oggi entrerebbe nel mercato non per chiedere conto della morte di Dio ma della “morte dell’Altro”. L’Altro, categoria centrale delle riflessioni dell’otto-novecento, che ha rappresentato il tema cruciale delle lotte e delle rivendicazioni sociali, del riconoscimento delle differenze, è stato progressivamente sostituito dal mito del sé, da un individualismo atomico che invece è, paradossalmente, negazione del sé, perché il sé è inconcepibile fuori dalla relazione con gli altri: nessuno può descrivere sé stesso facendo a meno di qualsiasi riferimento esterno a sé. Eppure, nel tempo siamo diventati tutti testimoni e protagonisti di un isolamento progressivo – ma funzionale all’epoca della separazione –, che ripropone i temi dell’hobbesiano stato di natura ma in un contesto evoluto, progredito.

L’Altro si è ridotto a pura contingenza e la “fatica” della relazione si è ristretta entro i campi del giuridico, che rinvia all’originario patto sociale. Ogni relazione è normativizzata, codificata in uno specifico contesto, nello spazio e nel tempo, in nome della sicurezza offerta dall’apparato: dalla comunità al matrimonio, dal lavoro al condominio. L’Altro non è più scoperta né specchio o orizzonte di quel sé che impatta il mondo.

Ogni individuo finisce così per scambiare l’isolamento con l’unicità, il singolare con l’esclusivo. Solipsismo nella moltitudine. Il bisogno dell’Altro sembra tutto relegato allo spazio formalizzato dei rapporti dove anche pathos e polemos, decodificati, diventano codici del controllo. Si compie così, dentro il disegno di un mondo rigidamente statuale, quell’ulteriore regressione dell’individuo sempre meno capace di aver cura di sé e senza più alcuna cognizione dell’aver cura degli altri.