La scelta della guerra civile
Un’altra storia del neoliberalismo
Christian Laval, Haud Guéguen, Pierre Dardot, Pierre Sauvêtre
10.12.2023
Il testo che segue è un estratto dall'Introduzione al volume La scelta della guerra civile. Un'altra storia del liberalismo, di Christian Laval, Haud Guéguen, Pierre Dardot, Pierre Sauvêtre, edito da Meltemi.


1. Le strategie di guerra civile del neoliberalismo

Il neoliberalismo muove sin dalle sue origini da una scelta effettivamente fondativa, la scelta della guerra civile. Questa scelta continua ancora oggi, direttamente o indirettamente, a comandare gli orientamenti e le politiche neoliberali, anche quando questi non implicano l’uso di mezzi militari.

È questa la tesi sostenuta da un capo all’altro del libro: attraverso il ricorso sempre più manifesto alla repressione e alla violenza contro le società, ciò che si sta realizzando oggi è una vera e propria guerra civile. Per comprendere correttamente questo fenomeno, conviene innanzitutto tornare su questa nozione. È molto diffusa l’idea che vede la guerra civile come guerra interna opporsi alla guerra interstatale come guerra esterna. In virtù di questa opposizione, la guerra civile si fa tra cittadini di uno stesso Stato. Mentre la guerra esterna è una questione di diritto, alla quale tutti i soggetti belligeranti sono sottomessi, la guerra interna è rigettata nella sfera del non-diritto. Alla rivendicazione di Courbet nell’aprile del 1871 in favore di uno statuto di belligeranti per i comunardi, che invocava “gli antecedenti della guerra civile” (la guerra di Secessione del 1861-1865) è stato opposto che “la guerra civile non è una guerra ordinaria”1. A questa antitesi bisogna aggiungerne una seconda, che raddoppia la prima, quella della politica e della guerra civile: mentre la politica è la sospensione della violenza attraverso il riconoscimento del primato della legge, la guerra civile è dispiegamento sregolato della violenza, di una collera “che mescola indissolubilmente furore e vendetta”, per dirla con Tucidide2. Tutte queste antitesi, e altre ancora, ostacolano la presa in esame del neoliberalismo a partire dalla sua stessa strategia. Adottando questo punto di vista, apprendiamo che la politica può perfettamente far suo l’uso più brutale della violenza e che la guerra civile può essere combattuta attraverso il diritto e la legge.


2. Strategie differenziate


Due esempi ci permetteranno di entrare nel vivo della questione: quello del Cile e quello degli Stati Uniti. Il 20 ottobre 2019, due giorni dopo l’inizio dei disordini nella metropolitana di Santiago a causa dell’aumento delle tariffe dei biglietti, il presidente cileno Sebastián Piñera non ha esitato a dichiarare lo Stato di guerra in questi termini: “Siamo in guerra con un nemico potente, implacabile, che non rispetta niente e nessuno ed è pronto a usare la violenza e la delinquenza senza alcun limite”. Per i cileni che lo ascoltano, questo utilizzo del termine “guerra” non ha niente di metaforico: l’esercito ha il compito di far rispettare l’ordine e i veicoli blindati ricompaiono per le strade di Santiago, riportando i più anziani a sinistri ricordi, quelli del colpo di Stato militare di Augusto Pinochet dell’11 settembre 1973. Nelle settimane successive, i Carabineros si assumeranno il compito di dare alla parola “guerra” un senso molto preciso, quello dello scatenarsi violento dello Stato contro comuni cittadini (stupri nei commissariati di polizia, auto della polizia lanciate sui manifestanti al fine di schiacciarli, centinaia di manifestanti feriti agli occhi o che hanno perso la vista a causa dell’utilizzo di proiettili contenenti piombo, ecc.).


Ma qual era il volto del “potente e pericoloso nemico” designato da Piñera? Il 18 ottobre 2019 debutta il movimento noto come “Risveglio d’ottobre”. In pochi giorni, questo movimento orizzontale, senza leader o capi politici, ha assunto la dimensione di una vera e propria rivoluzione popolare, senza precedenti per durata e intensità. È tutta la diversità della società a fare rumorosamente irruzione nello spazio pubblico. È significativo che gli striscioni femministi e le bandiere dei Mapuche si siano mischiati nelle manifestazioni. Le donne cilene sono state schiacciate da un familiarismo che esigeva da loro sempre più sacrifici, i Mapuche sono stati vittime di una “colonizzazione autoritaria interna”3. Senza dubbio la guerra dichiarata da Piñera è una guerra civile, una guerra che richiede la costruzione discorsiva e strategica della figura del “nemico interno”. Nasce dalla scelta, da parte dell’oligarchia neoliberale, di fare guerra a un movimento di massa di cittadini che minacciano direttamente il suo dominio. Un graffito onnipresente sui muri lo mostra: “Dove il liberalismo è nato, il liberalismo morirà”. Non ha il valore di una predizione, ma quella di una funzione performativa: ci riporta collettivamente, noi che qui viviamo, a farla finita con questo sistema, incompatibile con una vita degna. È stata la potenza di questo movimento auto-organizzato a impedire la guerra civile voluta dall’oligarchia, ed è questa stessa potenza ad aver imposto il referendum sulla nuova Costituzione che si è prolungato sul terreno elettorale con la vittoria del “sì” il 25 ottobre 2020.


Ma possiamo limitare la strategia neoliberale della guerra civile a un’iniziativa dello Stato come questa, volta a stroncare una rivolta popolare? Certamente no. Lo spettro della guerra civile non è mai stato brandito tanto quanto durante le ultime settimane della campagna presidenziale americana, mentre si producevano violenti scontri tra suprematisti bianchi e manifestanti antirazzisti a Portland o a Oakland. L’editorialista Thomas Friedman non ha allora esitato ad affermare sulla CNN che gli Stati Uniti erano alla vigilia di una seconda guerra civile. Nel 2020, la prima grande manifestazione ha avuto luogo in Virginia, dopo che i democratici avevano ottenuto il controllo del governo dello Stato e avevano promesso di promulgare leggi sul controllo delle armi: circa ventiduemila persone, di cui molte armate, manifestarono davanti al Campidoglio a Richmond, cantando “Non obbediremo”. Nell’aprile dello stesso anno, venne sventato un complotto per rapire il governatore del Michigan e denunciarlo per tradimento. Lo spettacolo dell’irruzione del 6 gennaio 2021 a Washington ha rivelato un movimento radicato nelle profondità della società americana. Tutte queste violenze non svelano una classica guerra civile in cui due eserciti si affrontano, come durante la guerra di Secessione, ma una divisione profonda e duratura tra due parti della società, per troppo tempo occultata dal prisma deformante dell’opposizione elettorale tra democratici e repubblicani, e che oggi si presenta come una singolare forma di guerra civile. È troppo facile vedere in Trump un demiurgo che avrebbe creato questa divisione all’interno di una società in precedenza pacifica. Quello che Trump ha saputo fare è stato reinvestire su divisioni molto antiche, razziali, sociali e culturali, per meglio attizzarle a proprio vantaggio, ravvivando in particolare l’immaginario sudista fatto di schiavismo e di razzismo, come testimoniato dal dispiegamento della bandiera confederata e dalle milizie dei Boogalo bois, ossessionate dai preparativi di una guerra civile imminente. Ma la cosa più importante per il futuro è senza dubbio che Trump sia riuscito a tenere insieme intere fasce della popolazione, aumentando anche in modo significativo il numero di voti a suo favore tra il 2016 e il 2020 (da 63 milioni a 73 milioni nel 2020). Questa polarizzazione è stata resa possibile solo da una contrapposizione di valori, quelli della libertà e dell’uguaglianza o della libertà e della giustizia sociale, in una parola quelli della “libertà” e del “socialismo”. È infatti questa contrapposizione ad aver dato senso all’odio o al risentimento provati da gran parte di questi elettori. Come dice Wendy Brown, il più grande risultato dei repubblicani in queste elezioni è stato quello di “identificare Trump con la libertà”: “Libertà di resistere ai protocolli anti-Covid, di abbassare le tasse ai ricchi, di espandere il potere e i diritti delle aziende, di cercare di distruggere ciò che resta di un Stato regolatore e sociale”4. È l’attaccamento a questa “libertà” che fa il trumpismo al di là della persona di Trump, e che permette di delineare un trumpismo senza Trump. Come sostiene la storica Sylvie Laurent, i miliziani di Capitol Hill non sono un corpo estraneo all’America, ma “s’inscrivono in una lunga tradizione di terrorismo bianco-americano”, che ha potuto prosperare sul terreno fertile di un “nativismo” vecchio di quattro secoli5. Ma al di là dell’America, la libertà che è “più preziosa della vita” è anche il vessillo brandito dai partigiani di Bolsonaro o dall’estrema destra spagnola, tedesca e italiana all’apice della prima ondata della pandemia, ed è il vessillo che invocano ancora oggi. La guerra civile contro l’uguaglianza in nome della “libertà” è senza dubbio uno dei volti principali del neoliberalismo attuale, considerato da una prospettiva strategica.


Non possiamo attribuire all’estrema destra il monopolio della strategia neoliberale. La cosiddetta sinistra “di governo”, in particolare quella di filiazione socialdemocratica, ha condotto dagli anni Ottanta questa stessa guerra, certo in maniera più elusiva, ma sempre con terribili effetti sui rapporti di forza e sulle possibili alternative. Non solo non ha difeso le classi lavoratrici e non ha protetto i servizi pubblici, ma li ha impoveriti e indeboliti in nome del “realismo”, vale a dire in nome dei vincoli della globalizzazione o dei trattati europei, a seconda dei casi. L’ascesa del neoliberalismo nazionalista della destra radicale non avrebbe potuto captare il risentimento delle classi popolari senza questa partecipazione attiva della “sinistra” all’offensiva neoliberale.


3. Politiche di guerra civile


Le guerre civili neoliberali comprendono dunque forme molto diverse e procedono seguendo strategie altrettanto diverse. Ma quale posizione occupa lo Stato? E in che modo i cittadini si oppongono gli uni agli altri, supponendo che una simile formula abbia qui un senso? Si tratta di una guerra “di tutti contro tutti”, secondo la celebre espressione di Hobbes? In La société punitive Michel Foucault problematizza la nozione di guerra civile discutendo la tesi di Hobbes, secondo cui la guerra civile sarebbe un ritorno dello stato di natura. Anteriore alla costituzione dello Stato, questa guerra sarebbe ciò a cui gli individui ritornano in seguito alla dissoluzione dello Stato. A questa concezione, è necessario aggiungere che la guerra civile non solo mette in scena, ma costituisce elementi collettivi: sono sempre i gruppi in quanto gruppi, e mai gli individui in quanto individui, a essere gli attori della guerra civile. Ma questi elementi collettivi non entrano qui in relazione secondo il modello di un confronto tra due eserciti nemici, come nella guerra civile inglese (1640-1660). Le rivolte popolari, come la rivolta dei Piedi Scalzi nel XVII secolo, i tumulti del mercato del XVIII secolo o, più recentemente, i Gilets jaunes, ne offrono un buon esempio. Infine, contrariamente a quanto sostiene il discorso del potere, la guerra civile non è ciò che lo minaccia dall’esterno: lo abita, lo attraversa e lo implica, perché “esercitare il potere è in un certo modo fare la guerra civile”6. In questo modo, la guerra civile funziona come “una matrice all’interno della quale operano gli elementi del potere, si riattivano, si dissociano”. È in tal senso che si può sostenere che, lungi dal porre fine alla guerra, “la politica è la continuazione della guerra civile”7.


Sebbene le guerre civili del neoliberalismo vengano combattute su più fronti simultaneamente, e sebbene abbiano come posta in gioco il dominio delle oligarchie su scala globale, non si fondono in un’unica guerra che avrebbe immediatamente come arena e teatro il mondo. Non ricorreremo quindi all’espressione “guerra civile mondiale”, che sappiamo essere stata utilizzata, fin dalla sua invenzione, da Carl Schmitt, e in modi molto diversi. Per quest’ultimo, a partire dalla metà degli anni Quaranta, la Weltbürgerkrieg si riferiva alla fine delle guerre interstatali proprie del mondo westfaliano e alla nascita di guerre asimmetriche condotte in nome di un ideale di giustizia che consentiva alle superpotenze di esercitare il potere di polizia nell’ambito di un diritto internazionale rinnovato e animato da una volontà missionaria8. Per Hannah Arendt, l’espressione si riferisce più che altro alla guerra condotta dai regimi totalitari (nazismo e stalinismo) che, nonostante importanti somiglianze, non possono evitare il confronto diretto a causa della loro volontà espansionistica – seguendo un tipo di analisi ripresa da Ernst Nolte nel suo libro Der europäische Bürgerkrieg 1917-1945. Nationalsozialismus und Bolschewismus (“La guerra civile europea, 1917-1945. Nazionalsocialismo e bolscevismo”). Altri autori, come Eric Hobsbawm in Age of Extremes: The Short Twentieth Century, 1914-1991 (“Il Secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi”), hanno usato questa espressione per riferirsi al confronto internazionale tra le forze progressiste dell’Illuminismo e il fascismo.

È in tutt’altro senso che parliamo delle “guerre civili” del neoliberalismo. In primo luogo queste guerre, condotte su iniziativa dell’oligarchia, sono guerre “totali”: sociali, in quanto mirano a indebolire i diritti sociali delle popolazioni; etniche, in quanto cercano di escludere gli stranieri da qualsiasi forma di cittadinanza, in particolare limitando sempre più il diritto di asilo; politiche e giuridiche, in quanto utilizzano i mezzi della legge per reprimere e criminalizzare qualsiasi resistenza e contestazione; culturali e morali, in quanto attaccano i diritti individuali in nome della difesa più conservatrice di un ordine morale, spesso riferito ai valori cristiani. In secondo luogo, in queste guerre le strategie sono differenziate, si sostengono e alimentano a vicenda, ma non danno luogo a una strategia globale unitaria le cui strategie nazionali o locali sarebbero solo particolarizzazioni. In terzo luogo, esse non oppongono direttamente un “ordine globale” di tipo imperiale, anche se guidato da una potenza egemone, a popolazioni prese in blocco, così come non oppongono due regimi politici o due sistemi economici l’uno all’altro. Esse contrappongono oligarchie coalizzate ad alcune fasce della popolazione della popolazione, con il sostegno attivo di altre fasce della popolazione. Ma questo sostegno non è mai dato in anticipo; deve essere ottenuto ogni volta, strumentalizzando le divisioni esistenti, soprattutto quelle più arcaiche. È così che queste strategie vanificano qualsiasi schema dualistico. Le guerre civili del neoliberalismo sono appunto civili, in quanto non contrappongono l’“1%” al “99%”, secondo uno slogan tanto famoso quanto fallace, ma mettono in tensione e quindi mettono insieme diversi tipi di raggruppamenti, secondo linee di clivaggio molto più complesse di quelle dell’appartenenza a classi sociali: le oligarchie coalizzate, che difendono l’ordine neoliberale con tutti i mezzi dello Stato (militari, politici, simbolici); le classi medie, che hanno aderito al neoliberalismo “progressista” e al suo discorso sui vantaggi della “modernizzazione”; una parte delle classi popolari e medie, il cui risentimento è catturato dal nazionalismo autoritario; infine, un ultimo tipo di raggruppamento, che si è formato in gran parte tra le mobilitazioni sociali contro l’offensiva oligarchica e che rimane legato a una concezione egualitaria e democratica della società (in cui troviamo in particolare le minoranze etniche, sessuali e delle donne).


In effetti, sembra che il dominio neoliberale abbia completamente cambiato le regole, i temi e i luoghi del confronto: se gli Stati si allineano uno dopo l’altro sotto la bandiera del capitale globale, di cui proteggono gli interessi contro le richieste e le aspettative in materia di uguaglianza e giustizia sociale, utilizzano molte leve e mobilitano molti affetti per deviare questa aspirazione verso i nemici interni o esterni, verso le minoranze scomode, verso i gruppi che minacciano le identità dominanti o le gerarchie tradizionali. È in questo modo che la protesta contro l’ordine globale è stata recepita da coloro che ne sono i principali beneficiari. Brandendo la bandiera dell’identità nazionale e del “nazionalismo economico” caro a Steve Bannon, la destra radicale è riuscita a canalizzare la collera di intere fasce della popolazione, come testimoniano il referendum sulla Brexit, l’elezione di Trump e quella di Bolsonaro, o l’accesso al governo di Matteo Salvini nel 2018. Questa concezione degli interessi nazionali, che include anche i lavoratori, è inseparabile dalla promozione dei valori conservatori della famiglia, della tradizione e della religione. La denuncia delle élite globalizzate è quindi avvolta dal grande racconto fantasmatico della dissoluzione delle identità culturali. Tuttavia, questo “nazionalismo economico” non consiste tanto nella rinuncia al libero scambio, quanto nel restituire alla sovranità dello Stato-nazione tutte le leve per condurre una guerra economica internazionale nel modo più favorevole ai suoi interessi. Dietro la sua critica alla globalizzazione culturale, la destra radicale gioca quindi appieno il gioco del mercato economico globale, e la spirale “nazionalista-competitiva” a cui indulge non le impedisce affatto di prendere posizione sul terreno della globalizzazione economica. Questa nuova configurazione non può essere ridotta a falsi antagonismi tra “globalisti” e “nazionalisti”, o tra “democrazia liberale aperta” e “democrazia illiberale populista”, perché questi due campi sono in realtà due versioni del neoliberalismo. Queste ricodificazioni del conflitto permettono infine al neoliberalismo di saturare lo spazio ideologico e politico, mascherando ciò che queste diverse versioni condividono: la stessa difesa dell’ordine del mercato globale, un sistema antidemocratico e un concetto di “libertà” che si confonde con la sola libertà d’imprendere e consumare, nonché con l’affermazione dominante dei valori culturali occidentali, come il trumpismo ha più volte mostrato, al di là della persona di Trump.


1 N. Loraux, La tragédie d’Athènes. La politique entre l’ombre et l’utopie, Seuil, coll. “La librairie du XXIe siècle”, Paris 2005, p. 55. Thiers a sua volta comparava i federati della Guardia nazionale ai sudisti della guerra civile americana. Di qui in avanti le traduzioni, se non diversamente specificato, sono mie [N.d.T.].

2 Tucidide in ivi, p. 83.

3 Esteban Radiszcz, psicanalista e professore alla facoltà di Scienze sociali dell’Università del Cile a Santiago, vuole indicare con questa espressione un tratto specifico del neoliberalismo cileno: la dominazione coloniale si è prolungata attraverso una colonizzazione interna.

4 W. Brown, Ce qui anime les plus de 70 millions d’électeurs de Trump, in “AOC”, 6 novembre 2020.

5 S. Laurent, in R. Jeanticou, L’invasion du Capitole s’inscrit dans une longue tradition du terrorisme blanc américain, in “Télérama”, 8 gennaio 2021.

6 M. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France. 1972-1973, EHESS/Seuil/Gallimard, coll. “Hautes études”, Paris 2013, p. 33; tr. it. di D. Borca, P.A. Rovatti, La società punitiva. Corso al Collège de France (1972-1973), Feltrinelli, Milano 2016, p. 45.

7 Ibidem. Su questa inversione della formula di Carl von Clausewitz, cfr. M. Foucault, Il faut défendre la société. Cours au Collège de France. 1975-1976, EHESS/Seuil/Gallimard, coll. “Hautes études”, Paris 1997, pp. 16, 41; ed. it. a cura di M. Bertani, A. Fontana, “Bisogna difendere la società”, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 22, 47.

8 In E. Traverso, A ferro e fuoco: la guerra civile europea, 1914-1945, Il Mulino, Bologna 2007, l’autore si rifà a Schmitt per analizzare la sequenza 1914-1945: la violenza acquisisce un carattere totale che respinge il nemico nell’illegalità per meglio legittimare il suo annientamento.



© Christian Laval, Haud Guéguen, Pierre Dardot, Pierre Sauvêtre, La scelta della guerra civile. Un'altra storia del liberalismo, Meltemi 2023