Sulla retorica del lavoro
Stefano Righetti

11.06.2021

Se c’è un esempio in cui l’ideologia dell’attuale mercato sparge la sua nebbia, confondendo i diritti dietro a un velo d’ipocrisia, o negandoli in base a un qualche relativismo da fiera, è certamente quello del lavoro. Da tempo dobbiamo infatti registrare in questo ambito, ma a dire il vero in molti altri settori della nostra vita sociale, un regresso ormai conclamato che probabilmente, trenta o quarant’anni fa, sarebbe stato assolutamente inimmaginabile nella sua portata attuale. Anche perché se la lotta per i diritti ha potuto sperare per molto tempo di colmare la loro mancanza con ulteriori rivendicazioni e conquiste, la loro progressiva eliminazione sembra presentarci la loro assenza odierna come un dato necessario (e del tutto accreditato). E un pernicioso istinto di adattamento non può che offuscare l’intero orizzonte.

Tolta alla differenza la capacità di porsi come l’immaginazione positiva di un’altra possibilità (politica, sociale, esistenziale), la differenza si è affermata in negativo come la liberazione da ogni vincolo, compresi quelli che rendevano più difficile lo sfruttamento del lavoro. Condizione che sembra investire, in forme diverse, quasi tutti i settori economici: dall’agricoltura alla cantieristica, dalle costruzioni ai servizi, fino all’istruzione, alla ricerca e alla cosiddetta "cultura".

Pur con impatti diversi sulla vita delle persone, a cominciare dal rischio dell’incolumità fisica (molto maggiore in alcuni ambiti rispetto ad altri), la differenza contrattuale istituita nel nostro paese, che distingue e assegna diritti in modo diseguale, mostra ormai un tale disprezzo per l’esistenza dell’Altro (per le sue possibilità e legittime aspirazioni) talmente ampio, diffuso (e probabilmente condiviso) da non suscitare più neanche meraviglia.

Le continue morti sul lavoro, le (poche) inchieste sulle condizioni lavorative nell’agricoltura, il vergognoso impiego di manodopera a basso costo nel settore del turismo o della ristorazione, il sistematico ricorso al precariato in quasi tutti gli ambiti della cultura e dell’insegnamento, che formano ormai il quadro desolante del "civile progresso" attuale (condizione protetta e gestita con interesse politico "bipartisan", come si dice), si accompagnano alle pur continue richieste di sempre nuova "flessibilità" del lavoro, o di eliminazione (il verbo politicamente corretto sarebbe "riforma") delle poche tutele rimaste o di quelle (in numero ancora minore) introdotte. L’ultima polemica in ordine di tempo riguarda ancora il reddito di cittadinanza (tutela insopportabile per molta politica italiana): perché con il reddito di cittadinanza i disoccupati (anche quelli più giovani) rifiuterebbero, secondo la retorica oggi in auge, l’impiego sottopagato e privo di diritti che l’imprenditoria avrebbe pronto per loro, se solo avessero "voglia di lavorare".

Ecco, forse la prima colpa della "sinistra da bar" che ha guidato in Italia la "deregulation" (l’inglese, chissà perché, trova sempre un certo impiego nella negazione italiana dei diritti del lavoro; l’ultima di successo era stata il "jobs act", mentre la traduzione del provvedimento in italiano suonerebbe certamente più scurrile e neo-realista, e assai meno elegante del manageriale medio) è stata quella di assecondare la differenziazione dei contratti di lavoro, accogliendo così la retorica del neo-capitalismo in voga, ormai dimentica del contenuto paternalistico che ne aveva sancito la fortuna durante la ripresa economica del dopoguerra – quando il lavoro guadagnava effettivamente diritti e permetteva di esercitarne di nuovi sul piano sociale. Quel paternalismo non è sembrato a un certo punto più necessario e tanto meno proficuo. Al suo posto, ha preso forza una retorica diversa (dal sapore quasi calvinista) che mira a indicare nel lavoro un obbligo morale, indipendentemente dalla sua reale diponibilità (il lavoro non c’è infatti per tutti) e dalla sua dignità (che a nessuno o quasi importa più difendere).

Invece che superato, dobbiamo ammettere che il concetto di alienazione (quello che negli anni 50 e 60 sosteneva le ricche discussioni sul lavoro) sembra oggi aggravato da un risvolto sociale ancora peggiore. L’alienazione attuale non riguarda infatti soltanto il meccanismo che fa sì che nel sistema industriale il lavoratore non sia più padrone del proprio lavoro. Questo tipo di alienazione sembra ormai talmente acquisito da non rappresentare più neanche un argomento degno di nota.

L’alienazione di oggi riguarda invece il fatto (già ben chiaro, va detto, al marxismo, ma dato sostanzialmente per superato da una certa fase in poi dello sviluppo economico contemporaneo) che a quella prima alienazione occorra aggiungere in realtà un’alienazione ulteriore (e ormai dominante), derivata dal lavoro sottopagato e senza diritti. Un tipo di alienazione meglio noto col nome di "esclusione sociale": l’impossibilità, per molti che lavorano, di avere un reddito generato dal proprio lavoro in grado di garantire non solo il sostentamento, ma anche una partecipazione positiva alla vita sociale, o una vita sociale tout court. In molti ambiti, e secondo una certa ideologia, potremmo dunque affermare che, a fronte di molto lavoro, non sembra rimanere nessun’altra forma di retribuzione che la vuota retorica del lavoro.

Ma se questo riguarda il lavoro cosiddetto "regolare", legale, va aggiunto che condizioni contrattuali sempre più precarie hanno spinto lo stesso reato di sfruttamento verso limiti a loro volta più estremi. Le situazioni più gravi e scandalose le dobbiamo purtroppo considerare, a conti fatti, come il frutto della massiccia introduzione, negli ultimi decenni, di forme di impiego sempre più prive di tutela. Si può a questo punto essere aggrediti e picchiati da uno sfruttatore agricolo per pochi euro, sia perché il lavoro è stato nel frattempo svalutato e de-regolamentato a tutti i livelli, e poi perché le nuove forme regolamentate del lavoro permettono già in definitiva la forma massima possibile di precarietà e di sudditanza che si potesse introdurre. Il che va di pari passo con la crescita di forme di illegalità che, a partire da quella precarietà, cercano il modo di sfruttare il lavoro ulteriormente al ribasso. Non vedere la pericolosità (sociale, civile e politica) di questo sistema fa già parte della nebbia ideologica che ci avvolge.

Ma i problemi che riguardano oggi il lavoro non finiscono qui, perché dobbiamo sottrarre, a questa già pur magra condizione, anche l’insostenibile impatto ambientale della maggior parte delle attività umane, così come queste sono attualmente concepite e condizionate dall’attuale sistema economico e sociale – e che molti contratti in essere, va aggiunto, non permettono di denunciare senza mettere a rischio la propria condizione. Il lavoro è dunque oggi, in molti casi, una forma di rimessa (individuale, sociale, economica e perfino ambientale): un modo accettato di impiegare il tempo (o, meglio, dal quale dipende la nostra accettazione sul piano sociale attraverso l’esibizione dei consumi); ma a questo punto, potremmo aggiungere, un’attività in molti casi dannosa e, soprattutto, sempre più rischiosa (come dimostra la continua strage sui posti di lavoro).

Che il "principio di prestazione", su cui la retorica lavorista definiva l’etica del lavoro, desse luogo a una complessa "restrizione" sul piano delle aspirazioni personali, e su quello della salvaguardia ambientale, era già stato messo in luce da Marcuse all’inizio degli anni 60: "nei centri della civiltà industriale, l’uomo è tenuto in uno stato di impoverimento, sia culturale che fisico. [...] i beni e i servizi comperati dagli individui, controllano i loro bisogni e pietrificano le loro facoltà. In cambio delle merci che arricchiscono la loro vita, gli individui non vendono soltanto il loro lavoro ma anche le loro ore libere. Il migliorato tenore di vita è viziato dal controllo che invade tutta la vita. La gente alloggia in concentrazioni di appartamenti e possiede automobili private con le quali non può più fuggire in un mondo diverso. [...] li tengono occupati e fanno divergere la loro attenzione da quella che dovrebbe essere l’unica vera conclusione: rendersi conto che potrebbero lavorare meno e determinare i loro bisogni e le loro soddisfazioni da sé. L’ideologia d’oggigiorno si basa sul fatto che la produzione e il consumo riproducono e giustificano il dominio" (H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi 1964, p. 119).

Possiamo solo aggiungere che, quarant’anni dopo queste parole, invece che una forma meno alienante di esistenza, è tornato in auge in molti settori un nuovo tipo di schiavismo. E che questo ci riguarda in un modo probabilmente impensabile per la società progressista occidentale degli anni 60 – per la società che credeva di poter lasciare definitivamente indietro di sé questo tipo di condizioni, per volgersi caso mai al problema opposto: all’alienazione prodotta dal dominio dell’abbondanza.

Diversamente, la nuova povertà del lavoro di oggi, delle sue forme poco tutelate, del nuovo schiavismo, dell’avvelenamento costante dell’ambiente (che impregna il cibo di cui ci nutriamo e che produce i tanti prodotti che acquistiamo e gettiamo abitualmente, senza dare ad essi alcun valore al di là del loro uso immediato), quella che fa di ognuno di noi il lavoratore gratuito dei "padroni" dei social e delle tante applicazioni tecnologiche da cui dipende ormai la nostra stessa povertà; questa povertà odierna del lavoro ci ricorda come l’alienazione di oggi sembra non avere ormai più nessuno spazio possibile di fuga; e che anche nei suoi risvolti negativi essa è in realtà sempre più parte necessaria di quell’unico, e condiviso, meccanismo di sfruttamento che (con un certo orgoglio, va detto) chiamiamo produzione.