13.11.2022
Questa antologia raccoglie i racconti scritti dalle detenute che nel tempo hanno partecipato al corso di scrittura creativa nella biblioteca della sezione femminile del carcere di Sollicciano. Cosetta è la portavoce di questo coro di donne relegate a soffrire per la mancanza di una libertà che anche fuori da quelle mura faticano a conquistare, a causa delle precarie condizioni di vita, durante la quale la maggior parte di loro si è trovata dall’infanzia, sospesa nel nulla, a inventare un modo per rimanere in equilibrio. Farle parlare, aiutarle a spiegare da dove provengono va fatto per celebrarle, per nobilitarle. Lo so che sono io ad aiutarle a sdipanare il filo delle storie, a suggerire di togliere il superfluo, a sostenerle nell’aggiungere frasi che precisino un senso, a pretendere il silenzio mentre una di loro legge a voce alta quello che ha scritto nella cella, a sottolineare l’importanza di sospendere il giudizio, a chiedere che a fumare si vada alla finestra, a consigliare un libro, a trascorrere una parte della notte a trascrivere al computer quello che hanno riversato su fogli smisurati dei quaderni che le mie colleghe indispensabili estraggono insieme a un grappolo di penne dalle borse di plastica. Però dopo gli anni trascorsi ad addentrarmi oltre ai cancelli e averle intorno a me a sorridermi, i denti strampalati, brade, abbigliate di vestiti altrui barattati con un pacchetto di sigarette oppure un chilo di zucchero, truccate in modo provocante oppure con le teste reclinate, gli occhi spariti dietro le palpebre chiuse a causa di un ammasso di pasticche che si sentono obbligate a pretendere, mi sembro una di loro, compresa nella chiarezza oscena che sia impossibile farcela, aiutarmi, aiutarle, che non c’è modo. Ho saputo venendo a condividere frammenti del loro tempo senza tempo quante donne non sono in grado di rimanere dentro un margine, quante di loro non sono disponibili a scivolare protette da binari, ribelli, esasperate, rancorose a lamentarsi di continuo di non venire comprese, a ingannarsi di amare in modo smisurato figli che invece non hanno la volontà di proteggere dalle loro movenze sgangherate, di aver bisogno di esaltare uomini che invece le calpestano, nemmeno capaci di accudirsi l’una con l’altra, di farsi forza insieme in luogo di avventarsi a dare un corpo all’invidia, alla gelosia, di reagire con esagerazione contro l’ottusità, l’indifferenza, talvolta improvvisandosi amanti per fare l’esperienza di un bacio, di un abbraccio in tanta sconquassata solitudine. Hanno un estro, un sogno, un’urgenza di divenire qualcosa d’altro che andrebbero aiutate a svelare perché l’esserne ignare non si trasformi in autolesionismo, invece di obbligarle a rispettare in modo cieco le regole. E’ tutto un rovinio, ammassate a insidiarsi, a protestare, a piangere, a tagliarsi, talvolta una prode si staglia in un miraggio di purezza a immaginare una versione del futuro in cui le sia garantito un appiglio contro il terrore di ritornare indietro, la odiata, che deve trovare il coraggio di tradire frequentando i laboratori messi a disposizione quella che non ha risorse per risorgere, un impiego, un diploma, persone intorno sagge, caritatevoli. Figlie di madri offensive, abituate al disprezzo, a rantolare nei sotterfugi per garantirsi un artificio con cui il corpo si dilati, esploda e si acquieti attraverso una sostanza stupefacente. Donne di ogni età che sono andate oltre, chi cauta, misteriosa, chi a precipizio, chi per il cadere improvviso di una foglia, a mettere in scena un disgusto che il più delle volte proviene dalle vite di altri inconsapevoli di propagare malessere. Non c’è modo, non hanno un lavoro, qualcuno di cui fidarsi, l’intenzione di essere affidabili, sono cattive, scompigliate, streghe ruvide dall’incanto ridotto a polvere, oppure piene di energia schizzano illuminate dal dissenso nei corridoi, decorate di tatuaggi maldestri, a reclamare per mezzo dello sventolio di un panno oltre le grate della finestra il desiderio di un uomo sconosciuto recluso di fronte a loro lontanissimo, nel reparto maschile. Non posso più prescindere dalle loro esistenze, si sono messe di traverso alla mia, nemmeno quando sono in mezzo alla mia gente, in apparenza più quieta, capace di mediazioni, allenata a reprimersi, a saltare l’ostacolo con grazia. Io lo so che esistono, che fanno parte di me, che solo di qualcuna farò parte.
Cosetta è diligente, scrive di getto poi prima di consegnare il suo racconto lo ricopia con ordine, a tratti è stata male, per respirare meglio capita che debba ricorrere a una bombola di ossigeno, senza pretendere come una fata inconsapevole si è ritrovata a essere di questa ballata malinconia la portavoce delle donne che ha incontrato durante il lungo periodo della sua reclusione. Descrive sconfitte e delusioni che ha ascoltato addossata a un termosifone dallo smalto scorticato oppure durante l’ora d’aria su una panchina di legno rosicchiata dagli asini, ansie di miracoli immancabilmente smentiti dalla crudeltà delle cose concrete che reclamano di venire pagate, si è lasciata incatenare con gratitudine ai giochi delle più giovani, che la coinvolgono in sarabande improvvisate nella costrizione di una cella per far perdere le tracce alla fuga impossibile verso l’avvenire, racconta il suo stupore per lo scomporsi e decomporsi di fattezze di donne ad aspirare a una continua metamorfosi improbabile. Cosetta proviene da un paesaggio fosco, da un paese cupo dove ora che sta finendo di scontare la sua pena spera di non dover tornare pur di sfuggire ai suoi vicini, ansiosi di umiliarla. Travolta da questa ridda di donne allarmate, variopinte, abituate a percorrere con familiarità le strade della trasgressione, ora ha trovato un calore insospettato, nonostante la sporcizia, le parole volgari, seduta a un tavolo di plastica bianco, attorniata da libri addossati alle pareti, sempre partecipe con empatia alla discussione corale su come perfezionare i racconti delle sue nuove amiche, piano piano è riuscita a ricomporre il suo essere scompaginato dalle vicende che hanno tradito la sua indole gentile, incline al condividere, fiera di sé, delle sue compagne, in una pratica che ha generato un confronto e una riflessione comune sugli argomenti emersi, con la speranza di rendere possibile una solidarietà e che almeno scrivendo si riposino.
Io so di loro sempre, come ognuna di loro sa, come Cosetta, per rimanere fedele a queste donne in tempesta a sbandare nel vento, disturbate, tenere, che fanno una fatica spaventosa a sopravvivere.