18 gennaio 2021
La paura e il mantra del «sistema»: salvare il capitale.
Stefano Righetti
Per
quanto si voglia esorcizzare la questione, i vari propositi di
crescita e di nuova industrializzazione, con cui dovremmo uscire
dalla crisi e tornare il prima possibile al nostro interrotto
benessere, non riescono a nascondere come vorrebbero un dato
culturale evidente. Esclusa dall’attuale cultura occidentale
(impegnata a occuparsi prevalentemente di cucina e di vino), la
pandemia ha riportato la morte al centro della scena. A dire il vero,
la cultura occidentale ha sempre continuato a parlare e a
rappresentare la morte. Le era però possibile produrre questa
rappresentazione solo facendo della morte un contenuto di fiction.
Le mostruosità sanguinarie del cinema, della televisione e del
fumetto, l’insistente, e pervasiva (per non dire infestante)
narrativa gialla e noir, i giochi video per aspiranti criminali,
hanno tutti fornito ininterrottamente al consumatore medio una morte
trasformata nel divertimento della paura e, contemporaneamente, nella
serena rassicurazione che l’eccezionalità del delitto avrebbe
avuto una soluzione razionale nel potere giudiziario.
La devastazione della morte (come quella della guerra) rimaneva, per l’immaginario occidentale, qualcosa in fondo di lontano e di esotico. Perfino quando quella devastazione si è presentata nelle sue società, come con il terrorismo degli ultimi anni, quella devastazione e quella morte sono apparse tanto più assurde proprio perché provenienti da un fuori che l’immaginario occidentale si rifiuta perfino di concepire come possibile. Uccidere in nome di Dio per un occidentale del XXI secolo ha talmente poco senso che la sola idea lo farebbe restare a letto la mattina in attesa di pensieri migliori (da queste parti è più facile trovare dementi per un qualche attentato razzista o per invadere il parlamento vestiti da bisonti). La morte a cui la pandemia ci ha messo di fronte spiazza invece ogni immaginazione corrente della morte e fa venire meno, di conseguenza, anche i limiti in cui la morte poteva trovare la sua rappresentazione nell’immaginario collettivo del felice Occidente, dalla fine della Seconda guerra mondiale fino ai nostri giorni.
Questa morte reale, concreta e presente, con cui le nostre società devono oggi fare i conti, non ha del resto nulla a che vedere neppure con la paura della morte che si era presentata sotto l’incubo della guerra nucleare fino alla metà degli anni 80. Quella morte, che faceva vendere rifugi atomici di varie dimensioni e capacità di resistenza, a seconda delle possibilità di spesa (e di fronte alla quale era ormai un dato di fatto che la sopravvivenza individuale sarebbe stata in funzione della disponibilità di ricchezza), era sempre rimasta soltanto una paura della morte, non ancora una morte reale. E per fortuna non lo sarebbe diventata. Quella morte restava dunque soltanto una morte immaginaria: un incubo collettivo, senza dubbio: una minaccia incombente e sempre possibile, come ci ricordano moltissime pagine scritte tra gli anni 60 e 80 (tra cui quelle straordinarie di Günther Anders), ma niente di più. Aperta la porta di casa, accesa la televisione sul varietà del sabato sera, usciti in discoteca o distesi sulla spiaggia con la canzoncina estiva in sottofondo e l’odore della crema sulla pelle del lui o lei che amavi, la morte e la paura della morte magicamente svanivano. La paura della morte nucleare era una minaccia che finiva di angosciare appena ci si sedeva al ristorante o si acquistava l’auto nuova che la minaccia della morte non impediva a nessuno di desiderare. Per sconfiggere la paura della morte nucleare bastava in fondo lo shopping. E per dirla con una battuta, è probabile che la Guerra fredda sia stata vinta più dallo shopping che dalla «deterrenza» atomica. Nessuno aveva davvero voglia di fare una guerra nucleare quando si poteva tranquillamente andare in giro per negozi e divertirsi la sera. E così, l’incubo nucleare trasferito sullo schermo nel 1983 da Nicholas Meyer nel film The Day After sembrò a tutti abbastanza da non volerlo replicare nel mondo reale.
Solo l’AIDS avrebbe riportato la paura della morte di fronte a una realtà davvero concreta. Ma, anche in questo caso, per quanto quella minaccia fosse (e sia) diffusa, nondimeno rimaneva (e rimane) una minaccia evitabile. Non restava forse che il cancro a dare al nostro immaginario spensierato l’indesiderata paura di un destino tragico e imprevedibile e, in fondo in fondo ineluttabile, anche per il felice consumatore contemporaneo. Dopo la fine della paura per la morte nucleare, la paura per il cancro è subentrata nella cultura occidentale come una paura decisamente più reale e concreta e, pertanto, più minacciosa (basta leggere qualche testo di un autore americano – anche lui «di consumo» – come David Leavitt per constatare come il cancro fosse diventato dagli anni 80 il gemello dell’AIDS nell’immaginario occidentale della morte, e in modo perfino più angosciante di questo, dal momento che il cancro non poteva trovare rassicurazione in nessun moralismo della colpa, come quello con cui si era cercato di fare dell’AIDS una minaccia ristretta e, di conseguenza, meno pericolosa).
Ma come l’AIDS anche il cancro rimaneva (e rimane) una paura della morte del tutto individuale. La pandemia virale ci ha messo invece di fronte a un altro tipo di paura e rende presente un altro pericolo: il pericolo che la morte non sia sempre evitabile; che la fine riguardi l’intera popolazione, l’intero sistema economico e, infine, l’intera civiltà (il modo di vivere, di essere, di pensare il rapporto con gli altri, ecc.). Di fronte a ogni altra paura della morte, la paura della morte che è generata dalla pandemia non sembra avere luoghi o momenti di ristoro. La sua minaccia, e la paura che essa determina, appaiono costanti e senza soluzione. Nessuno, in nessun luogo, al di là del proprio isolamento, ne è immune. Ogni attività, azione, contatto rappresenta un rischio. La morte si è presa il tempo e lo spazio da cui era prima stata esclusa. Anche il varietà che non parla della morte e della sua minaccia appare ora falso e inopportuno. Ce ne siamo accorti: la pandemia ha portato la morte in primo piano. Invece che una distrazione, lo shopping è diventato a sua volta un rischio.
È strano pensare come la presenza della morte sia rimasta così assente fino a questo momento dai nostri pensieri collettivi, rispetto a altre epoche e, soprattutto, a altre aree geografiche (non che la fiction non si sia occupata anche di pandemie: nel 1975 la serie britannica intitolata Survivors aveva spopolato anche in Italia, ma – ironia della sorte – il genere era sembrato sconfinare nella fantascienza, mentre la minaccia nucleare appariva decisamente più concreta). Eppure, quella minaccia di morte non era meno reale. Solo, non la si voleva vedere lì dove essa cresceva (e cresce) indisturbata e nascosta. In realtà basterebbe riconoscere ciò che tutti sanno senza trarne le dovute conseguenze: e cioè che la causa della pandemia non sta in un’entità estranea o in un conflitto militare innescato da qualche potenza del male (e, in quanto del male, ovviamente straniera). Ma che, paradossalmente, la sua origine risiede invece in ciò che essa è riuscita ad assoggettare di più, dopo che per tanto tempo eravamo riusciti a tenerla lontano sublimandola tutt’al più nello spettacolo. Questa morte non ha infatti altra origine se non nel nostro immaginario: ancora in quel modo di vivere, di essere e di pensare che è stato costruito, influenzato e coltivato dall’economia dei consumi negli ultimi settant’anni, e che ha incentivato in tutti i modi possibili (cioè presenti sul mercato) la ricerca della nostra soddisfazione individuale, mettendo a rischio gli equilibri biologici dell’intero pianeta. Incendiando foreste, inquinando aria, fiumi, mari, distruggendo ecosistemi, avvelenando intere città e aree geografiche solo per farci vivere più spensieratamente possibile l’illusione che tutto fosse sotto il nostro controllo e in nostro assoluto dominio.
Oggi sono molti gli articoli e i libri che, di fronte al disastro, vorrebbero spiegarci come il modello di sviluppo fin qui perseguito (quello che abbiamo chiamato il liberismo) sia anche l’unico in grado di salvarci dalla paura della morte, magari con qualche necessario aggiustamento (l’ultimo libro – e certamente autorevole – in questo senso è il saggio di Franco Debenedetti, Fare profitti. Etica dell’impresa, edito da Marsilio). Ma se tanto zelo dimostra almeno che la paura è adesso reale anche per chi se ne credeva fino a questo momento immune o, diciamo, ideologicamente al sicuro dopo la fine della Guerra fredda, forse varrebbe la pena affrontare con più coraggio la questione per quello che è. Ovviamente, si può pensare di riportare indietro l’orologio come se tutto potesse tornare al tempo «felice» in cui la crisi ecologica era solo una propaganda agitata da pericolosi disfattitisti (non che questa sia per forza l'opinione di Debenedetti, ma di qualche suo collega temo di sì) e l’avvenire una grande fabbrica che avrebbe trasformato l’intero pianeta in un infinito catalogo di merci vendibili e felicemente consumabili. Si può continuare a credere che questo sia davvero l’unico modello di sviluppo possibile, e credere in un futuro in cui la fabbrica-pianeta sarà, come si dice, «sostenibile». E del resto questo è effettivamente l’unico modello che i governi di tutto il mondo industrializzato si affannano a difendere. Non esiste modello alternativo e, probabilmente, non ci sarà neppure nel fulgido ritorno alla felicità del post-pandemia (che, peraltro, per quanto continuamente evocato, sembra ogni giorno allontanarsi di più). Ma sarebbe utile pensare che non ci sarà un’uscita consapevole dalla paura della morte se non coltivando innanzitutto un altro immaginario. Altrimenti, tornare al ristorante sarà soltanto una pausa prima della prossima emergenza.