La fuga da Kabul nel mondo che brucia
Stefano Righetti
27.08.2021

Ritagliate dal contesto della tragedia politica e militare a cui appartengono, le immagini dell’aeroporto di Kabul ci dicono quello che potrebbe succedere nel caso in cui una crisi ambientale diventasse anche crisi sociale. L’estate degli incendi ha del resto offerto l’immagine della fuga in modo tanto globale da renderla quasi un paradigma epocale, l’annuncio di un tempo di cui forse vediamo soltanto i primi effetti.

Ma se la crisi politica e quella del fuoco rendono per il momento ancora possibile la fuga verso un altrove, cosa succederebbe se la crisi climatica, da locale dovesse interessare davvero aree geografiche molto vaste e grandi masse di persone, come gli studi sembrano prevedere? Chi potrà fuggire? E, soprattutto, verso dove?

Se la fuga afgana dimostra la disparità insopportabile di chi può fuggire rispetto a chi deve rimanere (sulla quale nessun commentatore ha ancora avanzato una qualche considerazione, dal momento che quella disparità è anche l’unico residuo palpabile della giustizia democratica venuta a liberare gli oppressi), l’esodo e la fuga implicano comunque nel nostro immaginario – al pari di quello di tutti i fuggitivi – l’esistenza reale di una qualche terra promessa.

Lo sanno i migranti che muoiono nel Mediterraneo e nel deserto, che vengono torturati nei centri di detenzione libici nella speranza di una vita migliore "da qualche parte", "laggiù". Lo hanno sempre saputo tutti coloro che sono fuggiti dalle guerre, dalle persecuzioni, dalle carestie e dalle prigioni.

Ma a confronto di tutto questo, le dimensioni della crisi climatica minaccia di lasciare le possibilità di fuga senza una meta possibile, neppure immaginaria; neppure falsa come lo è, per molti versi, la meta immaginaria dell’Europa e dell’Occidente – figuriamoci dell’Italia – per molti migranti. La crisi climatica rappresenta un evento così radicale da minare ogni possibile speranza.

Rispetto alle possibilità tecniche della nostra epoca è qualcosa che possiamo immaginare soltanto riferendoci a tragedie del lontano passato, come quelle di Pompei e di Ercolano (di civiltà che non disponendo né di aerei, né di navi a motore, avevano per forza di cose anche un raggio di fuga estremamente limitato e dai tempi comunque troppo lenti). Nella sua scala ormai annunciata la crisi ambientale rischia di rendere allo stesso modo le vie di fuga aleatorie o estremamente limitate.

In senso inverso alla società di controllo, ciò a cui la crisi ambientale ci pone di fronte è l’impossibilità della fuga. Ma se la prima cerca di chiudere le smagliature che la rendono ipoteticamente possibile, attraverso una tracciabilità capillare dei nostri movimenti, la seconda rende semplicemente impossibile fuggire togliendo alla fuga l’obiettivo di una meta qualsiasi.

Il che è forse qualcosa, per le dimensioni in cui si annuncia, di psicologicamente mai davvero sperimentato, se non in termini appunto circoscritti o individuali (il che lasciava comunque intatta l’esistenza di un possibile altrove, per quanto irraggiungibile). Il rischio legato alla condizione ambientale appare dunque nuovo e potenzialmente terrificante.

Ma l’istintivo rifiuto a farsi avvolgere da simili pensieri sembra rendere impossibile affrontare la realtà della situazione, nonostante il suo evidente manifestarsi. Eppure, se la rimozione è l’atteggiamento individuale più comunemente praticato rispetto al pericolo ecologico ("torniamo a vivere e a rilassarci" è il loop psichico dei vacanzieri vicini di ombrellone e di virus), essa è a sua volta incoraggiata dal sistema mediatico e da quello politico. Ma va aggiunto che, a questo livello, la rimozione si caratterizza soprattutto come sostituzione. Un atteggiamento che la comunicazione sulla pandemia ha a sua volta attivato nel pieno dell’emergenza, e già ampiamente sperimentato e messo in pratica durante la guerra fredda e il pericolo nucleare.

Sostituire nell’opinione pubblica il pensiero negativo che deriva dalla considerazione di una minaccia tanto grave, con un pensiero positivo del tutto contrario. Così, mentre gli incendi bruciano foreste in ogni parte del globo, e il caldo sconvolge habitat e zone fredde del Pianeta, la politica mondiale estiva continua a parlare di "crescita" nelle sole declinazioni a questo concetto collegate: costruzione di infrastrutture, cementificazione, incremento della produzione, ripresa del PIL, aumento dei consumi, eccetera.

Uno dei modi (forse il più comune) con cui questa contraddizione viene fatta sparire è quello di porre il tema della sostenibilità, invece che attraverso un piano generale di investimento e trasformazione dell’economia (come sarebbe da attendersi, viste le circostanze), come intervento a livello delle singole produzioni, lasciando pressoché inalterato il modello economico e quello sociale corrispondente.

Se dal punto di vista dell’impatto complessivo, questi provvedimenti rischiano di rappresentare un beneficio molto limitato e parziale, essi funzionano però come meccanismo di rassicurazione, favorendo la percezione sbagliata che il problema sia in realtà risolvibile all’interno dell’attuale sistema produttivo, mentre tutti gli studi più autorevoli sembrano dirci che così non potrà essere.

La produzione dell’auto elettrica rischia di avere del resto lo stesso impatto ambientale di quella dell’auto a combustione; e la produzione di energia per alimentarne il movimento non potrà che ridurne i benefici dovuti alle minori emissioni. Allo stesso modo, la produzione della carne e quella industriale del cibo non elimineranno l’emissione di CO2 neppure nella loro versione "bio", per il semplice fatto che altre modalità di produzione del cibo non sono al momento applicabili alla densità urbana e all’attuale costo della vita, e così via.

Ma a livello dei comportamenti individuali l’acquisto di un’auto elettrica rischia di funzionare in termini doppiamente negativi: fornisce al consumatore una "motivazione" etica che agisce come incentivo all’acquisto, a tutto vantaggio dell’attuale modello dei consumi e dell’industria dell’auto, senza evidenti benefici (o per lo più trascurabili) in termini di impatto ambientale.

La sostenibilità con cui veniamo rassicurati appare dunque in questi termini poco più che un analgesico zuccherato: l’alta velocità è il nostro destino; la sua meta sempre più appannata. Ma per i fortunati che potranno pagarsi un biglietto per il turismo spaziale, lo spettacolo del mondo che brucia sarà certamente un motivo di attrazione in più e un richiamo per lo sviluppo di questa nuova forma di svago – forse l’unica via di fuga in futuro praticabile.