La fine: e poi? A proposito di Un giorno di Monica Sarsini
Ubaldo Fadini

24.06.2023

Non sono propriamente un critico o uno storico letterario. Meglio così perché voglio brevemente riportare soltanto alcune impressioni di lettura dell'ultimo libro di Monica Sarsini, Un giorno (Vita Activa Nuova, Trieste 2023, con una postfazione di Roberta Mazzanti). Sarsini è una scrittrice e artista di rara e quindi realmente preziosa sensibilità che fin da alcuni dei suoi primi testi, pubblicati da Scheiwiller, si è confrontata con una problematica, vissuta personalmente, che riassumerei in questi termini: è possibile affrontare concretamente ciò che viene dopo una fine, porsi direttamente in quella singolare condizione che sembra non consentire altro passo e respiro di fronte ad una premessa di vita che è pure tragicamente venuta meno? Come si fa ad esistere quando il senso del relazionarsi è stato bruscamente tolto di mezzo? Sono domande che mi pongo e che certo non so risolvibili ma ne cerco le trame in alcune delle pagine di Un giorno. Operazione rischiosa, forse veramente avventata, ma che può consentire di arrivare al cuore appunto “avventuroso” di un cammino da “sperduta” in paesaggi di campagna e di città, avvistati con preoccupazione crescente, di cui si avverte l'indifferenza rispetto al proprio e per molti inopportuno sparire.

Dopo la fine, il mondo appare “innaturale” o comunque si è indebolita quella relazione di ciò che in noi sembra pur vivere – per poter aver termine – con le sue manifestazioni di radicale estraneità o di indifferenza “immusonita” come se ne scoprono ancora, esemplificativamente, nei tanti musei di una città come Firenze. Ma terminare, “sparire”, vale anche come indicazione di un vagabondaggio comunque vivo, di un sentire in ogni caso palpitante. Ecco che può accadere allora che si risvegli il sentimento di una presenza vicina al cuore, da qualche parte, sotto veste umana.

L'insegnamento in carcere, il lavoro sulle parole altrui, ultimo fronte di una contesa con ciò che ferisce e umilia, li percepisco pure così: come pratiche di stravolgimento condiviso per una possibile rivolta di cui non è possibile anticipare le forme ma che so essere sempre paradossalmente all'ordine di un giorno, contro l'ordine della notte, quello vissuto e sempre presente al poeta del succedersi delle soglie in un cammino di incontri con l'imprevedibile e di sguardi di complicità animale o di avversione trattenuta. A me viene in mente “l'uomo che cammina” di Giacometti, le sue figure allungate fino allo spasimo nel tentativo disperato di toccare qualcosa, oppure le pagine di Sebald sugli effetti delle distruzioni, ma il movimento complessivo della ricerca di Sarsini è tale da individuare la possibilità concreta di un altrove da quella condizione di immobilità a cui sembra affidarsi il desiderio di fuggire via, di corrispondere senza nessun bisogno (di) “pubblico” al silenzio delle parole che giustamente, così difendendosi dalle innumerevoli pretese che le condizionano, se ne vanno da qualche parte, magari in un angolo beffardamente irriconoscente e in fondo sconosciuto. E però si insiste, si coltiva l'arte del resistere in un qualche modo e allora le parole vanno braccate, meglio: vanno inseguite nel loro filare via proprio perché può essere la ricerca della loro compagnia a stimolare un dire reale, una ripresa di amicizia, di “fratellanza”, non nel segno scontato della immedesimazione, della simpatia.

Alle pagine 140-141 si legge: “Anche solo una parola per volta, tra il letto da rifare, i gatti da sfamare, il vestito da lavare, il vestito da stendere, le piante da annaffiare, le scale da salire, da scendere, mentre le cicale il giorno prima di ferragosto avevano preso improvvisamente a tacere e le more in fondo al fosso stavano imbrunendo i rovi, anche solo una piccola frase per sentire che stavo andando avanti a scavare sottoterra per emergere. Nonostante la gratitudine che provavo per come si disponeva con attenzione a quello che mi premeva raccontargli per ridare la parola a tutto il tempo della mia vita a cui non avevo dato il diritto di parola, mi chiedevo un uomo come lui, dalla memoria prodigiosa, che comprensione potesse avere di una come me, che mi rifugiavo nelle metamorfosi, che mi ero divertita a credere che la Nottola di Minerva fosse un callo sotto il piede di una dea o un suo polpaccio vigoroso. Le parole da scrivere non le facevo accedere in me, ma intanto accadde che parlargli di me come non era stato possibile con altri, a causa della calma singolare che provavo a stare vicina a lui, mi riunì a quella persona che ero stata nel tempo del mio vivere da muta e me ne facesse scoprire la voce”.

È questo il ritorno sempre auspicato a fare banda, al rimanere accanto in superficie da fratelli, in un mondo dove tutto è sotto un qualche bando, come dicono i filosofi critici. Si tratta insomma dello sforzo immane, per via delle parole, di non trasformare la catastrofe in strofe, di non truffare il senso della perdita. Traspare così, sempre tradito e dunque sospinto via, il bisogno del confidare, del contatto che non procuri fastidio. Ancora una pagina (144-145), per concludere: “Fino a quando non avessi riempito altre cinque cartelle con le mie parole non lo avrei incontrato, ci sono quelle fiabe in cui si dichiara: fino a quando non avrai superato le tre prove non potrai sposare la principessa, non dovrai mai aprire quella porta. La strada che congiunge la campagna alla città la percorro sempre da sola, di rado incrocio qualche macchina, devo piuttosto stare attenta ai cinghiali, ai caprioli, a prevenire la potenza dei loro corpi che per raggiungere il balzo d'un tratto potrebbero infrangere la conversazione che mentre guido imbastisco con me e che nel tempo ha formato l'ossatura della mia solitudine. Non ho più paura, nemmeno del buio che trattiene i rami inamidati a rivelare appena il loro concedersi senza infondermi il coraggio o la speranza mentre compongono il paesaggio che non dispera per la mia assenza. Quando arrivo in città a incontrare le mie persone abituate al traffico, a un andirivieni di corpi affaccendati in qualche azione, ho l'impressione di presentarmi a loro come un fiume che trascina con sé un convoglio di detriti vegetali che a poco a poco ne hanno invaso la sostanza, così che sia impossibile renderli noti, c'è solo da avere fiducia che qualcuno riesca a riconoscerli dalla mia maniera di scrutare i volti, di chiedere, di stare cauta in attesa con lo sguardo. Quando le acque sono scosse dal vento per fare andare dritta la canoa in quelle circostanze bisogna spingere con la pagaia di più da un lato”.