12.02.2021

La crisi pandemica del concetto di «folla»

Stefano Righetti


È indubbio che da circa due secoli, dopo la rivoluzione francese, dalla metà almeno dell’800, la modernità abbia avuto nella folla il suo simbolo vitale e frenetico. Prima che la folla rivelasse all’osservazione psicologica di Le Bon il desiderio di un capo, per diventare definitivamente, con le analisi di Freud prima e di Canetti poi, quella che avremmo chiamato massa, la folla che descrive Baudelaire è invece (come quella consumistica delle nostre città) festosamente caotica e ingenuamente esuberante. Se la massa richiama una psicologia e una sociologia che ne spieghino l’origine, le dinamiche nascoste e le forme che ne strutturano l’apparente evanescenza, ma in cui si celano latenti i suoi pericoli politici (e da ultimo anche le sue potenzialità economiche, allorché il suo concetto è stato esteso, per similitudine, a indicare la folla indistinta dei consumatori delle società industriali, divenuti perciò massa in un senso del tutto statistico, senza la consapevolezza di esserlo, se non quando si trovano in fila per l’acquisto dei saldi, e senza la possibilità di darsi un capo che non sia la réclame), la folla che descrive Baudelaire rimane del tutto anarchica e spumeggiante.

Saremmo tentati, leggendo le sue pagine, di immaginare che il termine folla indicasse all’inizio del moderno qualcosa di diverso da ciò che la folla sarebbe presto divenuta facendosi massa; che la modernità sia in fondo anche la storia della folla che diventa massa e che nell’epoca del liberismo, sopravvissuta alla crisi dei partiti (anche questi di massa), quando la massa si è liquefatta nella società dei consumi, la folla è tornata a essere semplicemente ciò che era all’origine, folla. Neppure il populismo sembra potersi sottrarre a questa tensione fatale. L’assalto al Campidoglio della massa fomentata da Trump è diventato subito disastroso bivacco e squallido (considerato i morti) carnevale.

Ma come avviene per il costituirsi della massa, anche per diventare folla occorre entrare consapevolmente nella folla. Solo che, ben lontana dal mirare a una qualsiasi forma istituzionale di potere, la folla descritta da Baudelaire mira soprattutto alla propria immediata soddisfazione, senza altro fine che il proprio piacere. Prima di farsi identità politica o comportamento statistico, l’agire della folla è qui soltanto aggregazione e dispersione: movimento convulso in un mondo divenuto improvvisamente soltanto meno noioso – ovvero, moderno. E poiché che nella modernità «la curiosità è divenuta una passione fatale», scrive Baudelaire, «l’innamorato della vita universale» entra «nella folla come in un’immensa centrale di elettricità» (C. Baudelaire, Il pittore della vita moderna, Abscondita, p. 21 e 24). La folla impersonifica il moderno molto prima che il moderno possa identificarsi nel concetto astratto di massa, dal momento che ciò che il moderno ha scoperto facendone un’identità (ci ricorda Baudelaire) è quel «piacere fugace della circostanza» (cit., p. 27) che il far parte della moltitudine permette a ognuno di sperimentare, non appena ci si abbandoni al fluire contagioso della sua energia.

Annoiarsi in mezzo alla «moltitudine», mantenere l’abito uggioso di colui che pensa in mezzo alla gioiosa frenesia che muove il mondo sarebbe, anche per il pittore moderno, da imbecille: «allora esce! e guarda scorrere il fiume della vitalità, così maestoso e splendente. Ammira la bellezza eterna e la stupenda armonia della vita nelle capitali, l’armonia provvidenzialmente conservata nel tumulto della libertà umana» (cit., p. 24). Per la prima volta è possibile (forse addirittura necessario) dimenticarsi di ogni cosa (di sé e degli altri) per inebriarsi, privi di una qualunque identità, nella fugace armonia generata dall’improvvisa confusione.

In questo modo l’io del pittore moderno può diventare nella folla «insaziabile del non-io, il quale ad ogni istante, lo rende e lo esprime in immagini più vive della vita stessa, sempre instabile e fuggitiva». Perché la folla sta al moderno per ciò che il moderno rappresenta nella sua essenza: la consapevolezza che «quasi tutta la nostra originalità proviene dal marchio che il tempo imprime sulle nostre sensazioni» (cit., p. 30).

Nelle sue lezioni di Estetica, Hegel descriveva il contesto in cui si era sviluppata la pittura olandese del XVII secolo, agli albori della civiltà borghese, più o meno negli stessi termini con cui Baudelaire descriverà la felicità moderna: come una condizione di generale e frenetica «sregolatezza priva di preoccupazioni». Un attimo prima che la folla cominci la sua corsa inaugurando la storia moderna (come ci sta spiegando Manlio Iofrida), il tempo liberato dalle regole morali può essere allora colto da Hegel come uno stato di rilassata pienezza che anticipa la frenesia nella «domenica della vita».

Vero che dove un’ideologia della folla è stata pensata (da Le Bon a Freud a Canetti) questa non si è potuta sostenere che sul corretto sospetto che la folla debba nascondere, nel vortice festoso della sua confusione, le tracce di un’ordine o di un’identità che presto o tardi farà della sua moltitudine qualcosa di organizzato e del tutto diverso. Nondimeno, se la folla è rimasta una figura positiva del nostro immaginario è perché l’autoritarismo e il fascismo si sono fatti massa e ordine molto prima di essere folla (e dunque senza senza esserlo mai stati veramente): la loro violenza era già una forma organizzata, il loro disordine solo una strategia. Mentre è vero che la folla moderna di Baudelaire può aderire senza lutto e rimorso, senza consapevolezza o critica, al tempo febbrile della produzione e del consumo, e rimanere in quanto tale impermeabile a ogni giudizio e incapace di ogni idea come di ogni misfatto politico.

La folla non impone qui che il ritmo del suo fluire, trascina verso il non si sa dove in una spensierata estatica sospensione. Ma, potremmo anche dire, la folla è trascinata a sua volta dal ritmo che l’attraversa e la organizza. Per questo, nelle società industriali del XX e XXI secolo, la folla ha continuato a costituire una sorta di indefinibile entità e, insieme, di necessaria vitalità. Per quanto essa anticipi le definizioni politiche e sociologiche della massa, a differenza di quest’ultima la folla mantiene il senso di un’evanescente e apparente libertà: l’esprimersi di una confusione che può essere lasciata fluire come innocuo disordine. Un’inerme anarchia che accomoda ognuno, in modo automatico, alle regole generiche di una frenesia accettata come forma di libertà, e il cui ordine è perfettamente in sintonia con il ritmo accelerato della produzione (quello che Tiziana Villani ha messo in evidenza nel suo testo pubblicato su Tropico del Cancro).

Per questo la folla ha conservato nell’immaginario, al contrario della massa, l’identità innocente che le ha permesso di accomodarsi alla libertà dei consumi come all’unica forma di libertà rimasta dopo la cosiddetta fine delle ideologie. In questo modo, la folla ha ritrovato il valore delle origini descritte da Baudelaire, coincidente col fluire innocuo della sua vitalità. Laddove si manifesta, anche il suo possibile danno è considerato a quel punto come un effetto necessario. La devastazione di un bosco la domenica lascia nell’aria un odore di barbecue, di vino e di gioiosa sazietà economica che, come di fronte agli effetti di un pozzo di petrolio su un lago africano visti la domenica in tv dopo pranzo, non permettono a nessuno di pensare se ne valesse veramente la pena oppure no. Ancora prima del minimo accenno di pensiero la folla è già altrove. Ha invaso le piazze con auto parcheggiate dove capita ed è corsa a divorare pizze e gelati dove può.

Impossibile da fermare e da giudicare, a differenza della massa la folla è rimasta il ritratto dell’incontenibile energia del moderno, di cui anche Musil non poté fare a meno che registrare il movimento sempre più rapido, preso atto che si è ormai «giunti necessariamente al concetto di una specie di città super-americana, dove tutti corrono o s’arrestano col cronometro in mano» (R. Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Vol. 1, p. 30).

Nella parola «assembramento» la pandemia ha fatto invece apparire con sorpresa il negativo della folla. Il suo disordine è apparso d’un tratto degenerazione e pericolo: l’espressione di una vivacità sentita contemporaneamente come una minaccia. Una minaccia diversa dalla minaccia sovversiva della massa, perché l’assembramento minaccia il buon funzionamento del capitale, più che le sue istituzioni: l’esistenza del consumatore, invece che le forme del governo e i poteri costituiti. E per mettere riparo a questa minaccia (l’unica veramente rischiosa per la sua economia) il tempo febbrile del moderno ha dovuto ridurre il ritmo festante della folla, insieme a quello della sua produzione. Così, mano a mano che la frequenza del suo ritmo calava d’intensità, il movimento che rallentava e che diventava più lento, doveva coincidere sempre di più con lo spazio in cui il suo tempo finiva per restringersi. Il «confinamento» ci ha fatto capire, a dispetto delle definizioni, quanto fossimo ancora succubi dell’immaginario della folla e del suo ritmo – che la modernità avrebbe poi estremizzato e accelerato nei termini produttivi che ci avrebbe descritto Virilio (e come in Virilio lo rilegge Ubaldo Fadini in Velocità e attesa. Tecnica, tempo e controllo in Paul Virilio, Ombre Corte). Il confinamento che ha fermato e disperso la folla ci ha fatto insomma capire quanto fossimo rimasti in fondo moderni; o quanto il nostro post decantato coincidesse molto di più con il pre di cui il pittore di Baudelaire era chiamato a inebriarsi all’alba della nostra produttiva modernità.

Possiamo dire di avere avuto un vero assaggio di post-modernità soltanto ora che il tempo si è improvvisamente contratto e il suo movimento anche, costringendoci in uno spazio tanto privato quanto improvvisamente inadatto a contenerci. Uno spazio che il tempo della produzione ci aveva concesso soltanto come posto a sedere all’interno della sua inarrestabile accelerazione, e che ora non sembra assolutamente adatto a contenere il ritmo lento della nostra permanenza. La perdita improvvisa di velocità diventa così anche la crisi dello spazio che quel tempo ci aveva concesso, come unico spazio in cui ripiegare la nostra esistenza nei momenti dell’apparente riposo (perché nel moderno, come ha scritto Musil «ci si rade, si mangia, si ama, si leggono libri, si esercita la propria professione, come se le quattro pareti fossero ferme, e l’inquietante è che le quattro pareti viaggiano, [...] senza che noi sappiamo verso quale meta», cit. p. 31). Il «confinamento» (per quanto costretto al lavoro «a distanza») è uno spazio di attesa: il suo confine ci distingue dal ritmo accelerato della folla che attraversa lo spazio col suo dinamismo senza meta. Perché lo spazio può definirsi nel moderno soltanto in termini negativi: immobilità, recinto, confine, isolamento, conquista. La pandemia ce lo ha svelato in modo disarmante. Lo spazio rimane per la modernità un punto di passaggio, un’idealità provvisoria. Nella modernità il possibile si era staccato da terra facendo della terra e dello spazio soltanto l’oggetto di una residua utilità. Occorrerà porsi perciò il tema dello spazio come necessità di una possibile, diversa, esistenza.