La crisi climatica ha un pubblico distratto
Stefano Righetti

10.07.2022

La visione stereotipata del collasso climatico è una visione distopica: tende a rendere paradossalmente evidente ciò che il potere economico e buona parte di quello politico avrebbero invece interesse a non far presagire. Il futuro vi assume un vago, per quanto chiaro, sentore di morte. Poiché questo si rende esplicito contro ogni volontà, la macchina spettacolare è costretta a rilanciarne l’immagine nonostante essa rappresenti un atto d’accusa contro tutto ciò che per suo tramite diventa visibile. Il fiume senza più acqua, dove lo scheletro del pesce poggia come un fossile ritorto sul terreno screpolato ha così, nei confronti della società dello spettacolo, il senso della condanna e, insieme, della pena a cui essa va incontro.

Eppure, come avviene spesso di fronte alle catastrofi, la società spettacolare ci rassicura, notizia dopo notizia, che lo spettacolo continuerà inesorabilmente; che il succedersi delle immagini è già, in fondo, la sicurezza che la morte continuerà a essere visibile come vita, al posto della vita. Per uno strano principio di compensazione, questa certezza sulla continuità delle immagini è sufficiente a far credere meno presente (ovvero reale) ciò che, contro il loro interesse, le immagini dimostrano. In fondo, è quello che avviene continuamente: un vecchio film ci tranquillizza della certezza del passato, così come l’immagine delle vacanze sui social ci distraggono dall' incertezza del futuro. Ciò che conta, in ogni caso, è disinnescare la minaccia a cui il presente sembra doversi inesorabilmente accompagnare.

Chi non riesce a distogliere lo sguardo (e il pensiero) dall’immagine di morte che incombe può sempre rifuggirne addebitando alla sua visione l’incertezza (o la falsità) dell’immaginazione. All’estremo del mondo moderno, nel punto in cui la cieca fiducia nel suo sviluppo sembra rovesciarsi pericolosamente (o è quello che ci attendavamo?) nell’incubo della caduta, il Genio Maligno a cui Cartesio opponeva la certezza della ragione sembra tornare ora per restituirla al sonno beato da cui era sorta. La fine della modernità può così esprimere la caricatura della sua ragione assoluta nella forma di un sospetto al limite del delirante.

Per mezzo di esso, il principio di realtà può dare sostanza a uno scetticismo del tutto funzionale all’oppressione di cui vorrebbe liberarsi: invece che cercare le ragioni del fallimento della realtà fin qui accreditata come unica e indiscutibile, lo scettico addebita all’approssimarsi della fine la “figura” del complotto.

Nulla può più essere vero, dal momento che tutto è intenzionalmente falso: la crisi climatica, il Covid, la pandemia, la guerra, i morti della guerra e i morti della pandemia, la crisi economica e la fine dei fiumi. Proprio perché tutto ciò è visibile, il visibile è però allo stesso tempo – ne siamo convinti – la falsa verità in cui nuotiamo: la certezza che esiste un fuori e la consapevole ragione che ciò che vediamo sia falso.

La fuga dello scettico non è allora che il rovescio del dubbio di Cartesio: se questo doveva condurre alla ragione facendo della ragione la via verso la verità, questo dubbio è un dubbio che rimane invece senza meta, incapace di giungere a una qualsiasi verità, ma pronto ad accogliere come tale quella più consona al proprio risentimento.

Una tale forma di dubbio non può essere più neppure postmoderna. Il dubbio postmoderno era quello in cui diversi saperi potevano avanzare, sulla base del proprio procedimento disciplinare, una diversa considerazione e visione dei problemi, da cui poteva derivare il conflitto linguistico rispetto alla loro definizione e soluzione.

Il complottista articola invece il proprio dubbio al di qua e al di là di ogni sapere, in quel non-luogo in cui è possibile immaginare anche una “scienza” senza regole d’apprendimento, né di controllo: un’immaginazione del sapere, più che un sapere immaginario. La sua caratteristica è quella di essere un’immaginazione comunque funzionale a rimuovere la ragione politica e sociale di ciò che accade. O, nel caso del clima, a evitare di interrogarsi su ciò che abbiamo fatto di noi e del mondo negli ottant’anni circa che ci distanziano dall’ultimo conflitto mondiale. In molte parti fuori dall’Europa e del mondo occidentale la guerra è continuata. In Europa e in occidente, l’invenzione della “pace” ha preso nel frattempo le forme di una guerra contro tutto ciò da cui dipende la nostra stessa esistenza e quella di tutte (o quasi) le specie viventi. In questa pace, per riprendere Marcuse, “[l]’inquinamento dell’aria e dell’acqua, il rumore, l’intrusione dell’industria e del commercio negli spazi aperti naturali” hanno assunto presto “il peso fisico dell’asservimento e dell’imprigionamento” (Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, p. 214). Per non vederli, o non sentirne l’oppressione, basta dire che “non è vero”. O cambiare canale.