27.01.2021
La condizione post-prometeica. Alcune riflessioni su The economics of Biodiversity
Paolo Missiroli

Il professore di Cambridge Partha Dasgupta è stato incaricato dal governo inglese, nel 2019, di guidare un team di ricerca sul rapporto tra Natura ed Economia. Recentemente, tale indagine ha dato esito ad una pubblicazione dal titolo The Economics of Biodiversity, disponibile sul sito del governo del Regno Unito, in differenti versioni. Le seguenti righe sono di commento agli Headline messages di tale indagine, che sarebbe da approfondire nella sua interezza. Si tratta infatti di un testo al contempo interessante e pericoloso.

Tutto si gioca, evidentemente, su come si intendono i concetti alla base della review, che sono Natura ed Economia. La Natura, nella prospettiva di Dasgupta, è il fondamento di ogni esistenza individuale e collettiva possibile: non vi è economia che non sia radicata in una forma di Natura, determinatasi negli eoni del tempo geo-bio-logico. Essa è quindi un limite con cui ogni forma economica, ivi inclusa quella capitalistica, deve confrontarsi.

Da questo punto di vista, per Dasgupta è assolutamente centrale il tema della conservazione della Natura come primo ed ineliminabile passaggio di ogni tipo di politica del XXI secolo: non si tratta, sostiene esplicitamente, di “adattarsi” al Climate change, ma di conservare le forme di Natura (cioè gli ecosistemi specifici) che si danno nel presente, ai fini di salvaguardare il futuro e le nuove generazioni. Da questo punto di vista, la review è senz’altro interessante ed anche in contraddizione con i suoi elementi più pericolosi che vedremo in seguito: si tratta di un contesto, qui solo brevemente accennato, in cui difficilmente potrebbe entrare a far parte il concetto di resilienza, come ben sappiamo da più parti impiegato per difendere sia l’idea di una impossibilità trasformativa dei nostri modi di produzione, sia quella di una natura infinitamente trasformabile.

Allo stesso tempo, tuttavia, per la review la Natura è un asset, una risorsa. Questo è, ad un certo livello di astrattezza, innegabile per chiunque rifiuti una posizione dualista. Se infatti ogni società umana vive in continuità con il piano naturale, è chiaro che ogni artificialità sarà anch’essa radicata in una Natura in qualche modo trasformabile, modificabile, utilizzabile. Tuttavia, l’obbiettivo dichiarato della review è appunto far convivere l’economia con la Natura: si tratta, per Dasgupta, di trasformare la finanza in un sistema maggiormente in grado di spostare risorse verso un’economia sostenibile.

Entra qui in gioco un concetto altamente pericoloso, che rischia cioè di distogliere l’attenzione dalla necessità di una trasformazione più radicale che si rende oggi necessaria. Emerge cioè inossidato, tra le righe, l’imperativo della crescita: essa può essere ripensata, adeguata a certe specifiche configurazioni naturali, ma rimane il senso dell’economia a cui si fa riferimento in ultima istanza.

Tale economia si rivela dunque essere nient’altro che il modo di produzione capitalistico, con il suo sogno di una crescita che possa trovare il suo spazio anche nella globalizzaizone post-prometeica, cioè in uno spazio, inevitabilmente globale (come ha dimostrato da ultimo la crisi pandemica) in cui il modo di produzione si è trovato confrontato ad una contraddizione sistemica tra i cicli bio-geo-logici e la logica del Capitale. Non deve dunque stupire che Boris Johnson abbia accolto con calore i risultati di questo studio, da cui egli ha tratto la seguente lezione: la crescita e l’economia green non sono in contrapposizione, ma sono due atomi di una stessa molecola. Si tratta di una lettura parziale della review, ma certamente possibile.

Il problema non sta dunque tanto nell’accettare un’idea di Natura come qualche cosa di solido all’interno del quale si dà umanità, che mi sembra piuttosto ciò che rende potenzialmente questa review utilizzabile, a tratti, anche in senso critico-radicale. Al contrario, si tratta di definire al di là del green capitalism una forma economica diversa, che ridefinisca più radicalmente la crescita. Non ci sono dubbi che nella review sia presente anche quest’aspetto: è notevole la consapevolezza, che si manifesta in alcune righe, della necessità di un modello nuovo di scelta economica, non più self-centered, ma che tenga in conto la dimensione naturale nella sua solidità.

Tale testo, politicamente, appare a tratti più avanzato di alcuni discorsi “critici-critici” su quanto l’Antropocene sia l’era dell’ibridazione definitiva tra uomo e mondo. Tuttavia, esso resta inevitabilmente, per i motivi brevemente riportati sopra, nell’ambito di un tentativo di riforma troppo interno al sistema capitalistico globale. Se si vuole ragionare in termini ecologico politici radicali, tenendo cioè insieme giustizia sociale e giustizia ambientale, trasformazione sociale e critica ecologica, non è possibile fermarsi qui.