Joseph Beuys un secolo dopo
Enrico Camprini

Joseph Beuys, Felt Suit, 1970, ph: © Tate [2021]

29.05.2021

Lo scorso 12 maggio Joseph Beuys avrebbe compiuto 100 anni. È certamente superfluo rimarcare quanto la sua figura sia centrale nella storia dell’arte del secondo dopoguerra e come la sua opera – tra azioni, sculture o installazioni – sia permeata da una forza, un’energia, termine che lui preferiva, tale da restituire all’autore il privilegio di rappresentare una voce sostanzialmente autonoma, in un contesto estremamente vario e complesso. Tuttavia, mi risulta difficile resistere dallo spendere alcune brevissime parole sulla vicenda di un artista che ancora oggi pare avere molto da dirci.

Quando penso a Beuys mi torna spesso in mente una fotografia che documenta un’azione, dal titolo Action Dead Mouse / Isolation Unit, svolta nel 1970 all’Accademia delle Belle Arti di Düsseldorf e parte di una più complessa collaborazione con l’americano Terry Fox. Di questa performance, ancor più che il suo effettivo svolgimento, mi affascinano rappresentazione e resa visiva, in particolare nella lettura straordinaria che ne ha dato Victor Stoichita in un libro ormai diventato un classico (V. Stoichita, Breve storia dell’ombra, Milano, 2000, pp. 215-225). Beuys, vestito del suo celebre abito in feltro, si trova in una cantina buia; una sola lampadina posizionata quasi a terra genera luce sufficiente per illuminare il volto dell’artista il quale, in piedi davanti a una finestra chiusa, produce un’ombra massiccia e sinistra che si staglia sullo sfondo e ne supera la cornice. L’interpretazione di Stoichita tiene certo conto della natura e del senso rituale dell’azione di Beuys – tenere un topo morto sul palmo della mano, posarlo su un giradischi, consumare un frutto della passione – ma si spinge oltre.

L’autore colloca la fotografia in una serie iconografica che vede ombra (Van Gogh, Courbet, Bacon) e finestra-cornice (Duchamp) come dispositivi di autoriflessione sullo statuto dell’immagine e la figura del suo autore. In questo senso la performance di Beuys – o meglio la sua messa in scena – dialogando in modo imprevisto con tutta una tradizione storico-artistica, può dirsi anche una rappresentazione simbolica e allusiva, un riferimento involontario, ai motivi generativi dell’immagine come oggetto teorico e culturale, e una riflessione radicale proprio sul tema della rappresentazione.

Ciò che mi interessa osservare, e che a maggior ragione mi stimola a rimarcare l’importanza di Beuys oggi, è che all’artista non interessava pressoché nulla di questioni legate al visivo, alla ricezione o alla storia dell’arte. Ciononostante, si attiva quel cortocircuito diacronico che, nella storia delle immagini, permette ad esse di dialogare tra loro in maniera imprevista e imprevedibile. Con ogni probabilità Beuys non aveva alcuna intenzione di fare riferimenti alla pittura e al ruolo del soggetto in rapporto alle immagini che produce o osserva, ma sia l’imponente ombra sul muro sia, soprattutto, la finestra su cui essa si staglia chiamano in causa un problema storico e specifico, che al tempo stesso ritorna oggi nella nostra epoca della proliferazione delle immagini e dei regimi scopici, di cui quello simboleggiato dalla finestra-cornice di Alberti è forse il padre.

Se da un lato, in modo fortuito e inaspettato, Action Dead Mouse ci ricorda questioni su cui ci si continua a interrogare come lo statuto della rappresentazione, il suo cambiamento, il controllo sulle immagini (dentro e fuori dal contesto artistico); dall’altro questa lettura di Stoichita fa emergere bene le caratteristiche davvero proprie del lavoro di Beuys che, a loro volta, mi pare abbiano ancora qualcosa da dirci. «Ciò che Beuys cerca è l’oblio di ogni superficie/rappresentazione, di ogni cornice codificata. Propone la violazione di qualsivoglia rete di coordinate in nome di un intervento diretto (anche se sotterraneo) dell’”artista” nel flusso delle cose e dell’essere» (Ivi, p. 222). Ecco dunque che, nella cancellazione simbolica dello spazio rappresentativo, nel sottosuolo creativo delle immagini – letteralmente, la cantina dell’accademia di belle arti – l’artista interviene direttamente e senza mediazioni in quello che, un po’ grossolanamente, possiamo definire il mondo reale.

La stessa immagine, senza alcuna contraddizione con quanto detto, ci mostra in primo luogo il Beuys che tutti conosciamo: l’artista-sciamano. Action Dead Mouse, involontario riferimento all’ambiguità del potere delle immagini e della rappresentazione, è un compendio molto efficace di pratiche sciamaniche nell’ambito di una performance. Innanzitutto, l’abito: il celebre completo in feltro non era portato da Beuys per ragioni di mero riconoscimento, ma era «il contenitore rituale della persona sciamanica» (Ivi, p. 224). Il topolino morto tenuto sul palmo costituisce invece la “prova” dei poteri divinatori dell’artista, il quale avrebbe saputo in sogno della morte dello stesso, che aveva vissuto sotto il suo letto per tre anni. Nutrirsi del frutto della passione rappresenta infine il gesto finale di un rituale rigenerativo performato dallo sciamano. Insomma, rileggendo la Teoria generale della magia di Mauss, non è avventato avvicinare, come fa Stoichita, l’action dell’artista a un atto di tipo magico.

Ora, perché abbozzare questi esempi, perché rievocare in questi termini l’opera di Beuys, e non solo per motivi celebrativi e retrospettivi? La fotografia di Action Dead Mouse rivela i risvolti di un’azione che si apre al mondo delle immagini e lo pone in questione. Ma soprattutto sono l’azione stessa e Beuys, così “filologicamente” sciamanico, ad essere paradossalmente attuali. Almeno da un punto di vista critico e teorico, se pensiamo ad alcuni risvolti recenti e a una certa lettura antropologica alla base dell’arte e dell’artista contemporanei. Mi riferisco nello specifico alle recenti posizioni di Nicolas Bourriaud che, facendo esplicito riferimento all’eredità di Beuys, sostiene che «l’arte si riappropri oggi della nozione complessa di spirito e che l’artista si riappropri di un’agentività analoga a quella dello sciamano in una concatenazione di agenti umani e non umani» (N. Bourriaud, Inclusioni. Estetica del capitalocene, Milano, 2020, p. 102).

Questo è forse un motivo per cui anche nel nostro secolo Beuys può essere un riferimento per riflettere specialmente sulla figura dell’artista. Non certo perché occorra davvero attribuirgli chissà quali capacità profetiche o facoltà sovrannaturali, ma piuttosto intendendo la figura sciamanica secondo quella che, storicamente, era la sua funzione: essere una sorta di tramite, un rappresentante di istanze collettive, che per definizione agisce in un contesto sociale e per fini di carattere sociale. Si tratta evidentemente di un compito che può assumersi solo chi è in grado di cogliere nel rapporto con le cose un’alterità, una frattura, principio di un possibile rinnovamento; questo, al di là di inutili superstizioni o animismi, il punto di congiunzione tra il mestiere dell’artista e quello dello sciamano: «Intercedendo presso il mondo animale e gli spiriti, viaggiando in altri mondi, egli si traveste, organizza momenti di rovesciamento dei principi sociali, e afferma […] di poter trasformare la realtà col proprio sguardo» (Ivi, p. 116).

Qui risiede l’eredità di Beuys oggi. Un artista – anche in maniera controversa e discutibile – deve assumersi una responsabilità nella sfera collettiva e, più in generale, nelle dinamiche del vivente. Questo è il fine vero del processo creativo che traspare, allo stesso modo, dall’immagine che ho voluto descrivere – dal Beuys sciamano avvolto dall’abito di feltro – e anche dal Beuys successivo, quello del grande progetto di Documenta del 1982 e dell’impegno politico ed ecologico, questioni che, non ci sarebbe nemmeno bisogno di ricordarlo, oggi sono decisive più che allora. Per un’arte che sia davvero contemporanea, e non si riduca alla produzione e al consumo di oggetti di lusso.